02143 - SPIRITUALITÀ

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Vol.02 • cap.143 • La samaritana Fotinai.

  22 aprile 1945.
  143.1 «Io mi fermo qui. Andate nella città, comperate quanto occorre per il pasto. Qui mangeremo».
    «Tutti andiamo?».
    «Sì, Giovanni. È bene siate in gruppo».
    «E Tu? Resti solo… Sono samaritani…».
    «Non saranno i peggiori fra i nemici del Cristo. Andate, andate. Io prego mentre vi attendo. Per voi e per questi».
     I discepoli se ne vanno a malincuore e per tre o quattro volte si  volgono a guardare Gesù, che si è seduto su un basso muretto soleggiato  che è presso il basso e largo bordo di un pozzo. Un grande pozzo, quasi  una cisterna tanto è largo. D’estate deve essere ombreggiato da grandi  alberi, ora spogli. L’acqua non si vede, ma il terreno, presso il pozzo,  mostra chiari segni di acque attinte, con piccole pozze o con cerchi  lasciati dalle brocche umide.
    Gesù si siede e medita, nella sua  solita posa, coi gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani congiunte in  avanti, il corpo lievemente piegato e il capo curvo verso terra. Poi  sente il bel solicello scaldarlo e si fa cadere il mantello dal capo e  dalle spalle, tenendolo però ancora raccolto in grembo.
    Alza il  capo per sorridere a uno stormo di passeri rissosi che si litigano una  grossa mollica perduta da qualche persona presso il pozzo. Ma i passeri  fuggono per il sopraggiungere di una donna che viene al pozzo con  un’anfora vuota tenuta per un manico con la mano sinistra, mentre la  destra scosta con un atto di sorpresa il velo per vedere chi è l’uomo là  seduto.
    Gesù sorride a questa donna sui 35-40 anni, alta, dai  tratti fortemente marcati, ma belli. Un tipo che noi diremmo quasi  spagnolo per il colorito di un pallore olivastro, le labbra molto accese  e piuttosto tumide, gli occhioni fino smisuratamente grandi e neri  sotto sopracciglia foltissime, e le trecce corvine che traspaiono dal  velo leggero. Anche le forme, tendenti al formoso, hanno un marcato tipo  orientale lievemente molle come quello delle donne arabe. È vestita di  una stoffa a righe multicolori, ben stretta alla cintura, tesa sui  fianchi e sul petto grassocci, e pendente poi, in una specie di balza  ondulante, fino a terra. Molti anelli e bracciali alle mani grassottelle  e brunette e ai polsi che appaiono dalle sottomaniche di lino. Al collo  una collana pesante da cui pendono delle medaglie, direi degli amuleti  perché ce ne sono di tutte le forme. Pesanti orecchini scendono fin  verso il collo e brillano sotto il velo.

                                                                                                          
  143.2 «La pace sia con te, donna. Mi dai da bere? Ho molto camminato e ho sete».
    «Ma non sei Tu giudeo? E chiedi da bere a me, samaritana?
     Che è avvenuto dunque? Siamo riabilitati oppure voi siete disfatti?  Certo un grande avvenimento è avvenuto se un giudeo parla cortese con  una samaritana. Dovrei dirti però: “Non ti do nulla per punire in Te  tutte le ingiurie che i giudei da secoli ci dànno”».
    «Hai detto  bene. Un grande avvenimento è avvenuto. E per esso molte cose sono  cambiate e più ne cambieranno. Dio ha fatto un grande dono al mondo e  per esso molte cose sono cambiate. Se tu conoscessi il dono di Dio e chi  è Colui che ti dice: “Dammi da bere”, forse tu stessa gli avresti  chiesto da bere, ed Egli ti avrebbe dato acqua viva».
    «L’acqua viva è nelle vene della terra. Questo pozzo ce l’ha.
    Ma è nostro». La donna è beffarda e prepotente.
     «L’acqua è di Dio. Come la bontà è di Dio. Come la vita è di Dio.  Tutto è di un unico Dio, donna. E tutti gli uomini vengono da Dio,  samaritani come giudei. Questo pozzo non è quello di Giacobbe[102]? E Giacobbe non è il capo della stirpe nostra? Se poiun errore ci ha divisi, ciò non cambia l’origine».
    «Errore nostro, vero?», chiede aggressiva la donna.
     «Non nostro né vostro. Errore di uno che aveva perso di vista  carità e giustizia. Io non ti offendo e non offendo la tua razza. Perché  vuoi tu essere offensiva?».
    «Sei il primo giudeo che odo  parlare così. Gli altri… Ma, riguardo al pozzo, sì, è quello di Giacobbe  e ha un’acqua così abbondante e chiara che noi di Sicar lo preferiamo  alle altre fontane. Ma è molto profondo. Tu non hai anfora né otre. Come  potresti dunque attingere per me acqua viva? Sei da più di Giacobbe, il  santo patriarca nostro, che ha trovato questa abbondante vena per lui,  per i suoi figli e i suoi armenti, e ce l’ha lasciata a suo ricordo e  dono?».
    «Tu lo hai detto. Ma chi beve di quest’acqua avrà ancora  sete. Io invece ho un’acqua che chi l’ha bevuta non sentirà più sete.  Ma è solo mia. Ed Io la darò a chi me la chiede. Ed in verità ti dico  che chi avrà l’acqua che Io gli darò, diverrà per sempre irrorato e non  avrà più sete, perché l’acqua mia diventerà in lui sorgente sicura,  eterna».
    «Come? Io non capisco. Sei un mago? Come può un uomo  divenire un pozzo? Il cammello beve e fa scorta d’acqua nel capace  ventre. Ma poi la consuma e non gli dura per tutta la sua vita. E Tu  dici che la tua acqua dura per tutta la vita?».
    «Più ancora:  zampillerà fino alla vita eterna. Sarà in chi la beve zampillante fino  alla vita eterna e darà germi di vita eterna. Perché è sorgente di  salute».
    «Dàmmi di quest’acqua, se è vero che la possiedi. Io mi  stanco a venire fin qui. L’avrò e non avrò più sete, e non diverrò mai  malata né vecchia».
                                                                                                          
  143.3  «Di questo solo ti stanchi? Non di altro? E non senti bisogno che di  attingere per bere, per il tuo misero corpo? Pensaci. Vi è qualcosa da  più del corpo. Ed è l’anima. Giacobbe non dette solo l’acqua del suolo a  sé e ai suoi. Ma si preoccupò di darsi e di dare la santità, l’acqua di  Dio».
    «Ci dite pagani, voi… Se è vero ciò che voi dite, noi non  possiamo essere santi…». La donna ha perduto il tono petulante e  ironico ed è sottomessa e lievemente confusa.
    «Anche un pagano  può essere virtuoso. E Dio, che è giusto, lo premierà per il bene fatto.  Non sarà un premio completo, ma, Io te lo dico, fra un fedele in colpa  grave e un pagano senza colpa Dio guarda con meno rigore il pagano. E  perché, se sapete d’esser tali, non venite al vero Dio? Come ti  chiami?».
    «Fotinai».
    «Ebbene, rispondi a Me, Fotinai. Te  ne duoli di non potere aspirare alla santità perché sei pagana, come tu  dici, perché sei nelle nebbie di un antico errore, come dico Io?».
    «Sì, che me ne dolgo».
    «E allora perché non vivi almeno da virtuosa pagana?».
    «Signore!…».
    «Sì. Puoi negarlo? Va’ a chiamare tuo marito e torna qua con lui».
    «Non ho marito…». La confusione della donna cresce.
     «Hai detto bene. Non hai marito. Hai avuto cinque uomini ed ora hai  teco uno che non ti è marito. Era necessario questo? Anche la tua  religione non consiglia l’impudicizia. Il Decalogo lo avete voi pure.  Perché allora, Fotinai, tu vivi così? Non ti senti stanca di questa  fatica di essere la carne di tanti e non l’onesta moglie di uno solo?  Non ti fa paura la tua sera, quando ti troverai sola coi ricordi? con i  rimpianti? con le paure? Sì. Anche quelle. Paura di Dio e degli spettri.  Dove sono le tue creature?».
    La donna abbassa del tutto il capo e non parla.
     «Non le hai sulla Terra. Ma le loro piccole anime, alle quali tu  hai impedito di conoscere il giorno della luce, ti rimproverano. Sempre.  Gioielli… belle vesti… casa ricca… nutrita mensa… Sì. Ma vuoto, e  lacrime, e miseria interiore. Sei una derelitta, Fotinai. E solo con un  pentimento sincero, attraverso il perdono di Dio, e per conseguenza il  perdono delle tue creature, puoi tornare ricca».
                                                                                                          
  143.4 «Signore, io vedo che Tu sei profeta. E ne ho vergogna…».
     «E del Padre che è nei Cieli non ne avevi vergogna quando facevi il  male? Non piangere di avvilimento davanti all’Uomo… Vieni qui, Fotinai.  Vicino a Me. Io ti parlerò di Dio. Forse non lo conoscevi bene. E per  questo, certo per questo, tu hai tanto errato. Se avessi conosciuto bene  il vero Dio non ti saresti avvilita così. Egli ti avrebbe parlato e  sorretto…».
    «Signore, i nostri padri hanno adorato su questo  monte. Voi dite che solo in Gerusalemme si deve adorare. Ma, Tu lo dici,  Dio è uno solo. Aiutami a vedere dove e come devo fare…».
     «Donna, credi a Me. Fra poco viene l’ora in cui né sul monte di Samaria  né in Gerusalemme sarà adorato il Padre. Voi adorate Colui che non  conoscete. Noi adoriamo Colui che conosciamo, perché la salute viene dai  giudei. Ti ricordo i Profeti. Ma viene l’ora, anzi ha già inizio, in  cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e in verità, non più  col rito antico ma col nuovo rito in cui non saranno sacrifici e ostie  di animali consumati dal fuoco. Ma il sacrificio eterno dell’Ostia  immacolata arsa dal Fuoco della Carità. Culto spirituale del Regno  spirituale. E sarà compreso da coloro che sapranno adorare in spirito e  in verità. Iddio è Spirito. Quelli che lo adorano lo devono adorare  spiritualmente».
    «Tu hai sante parole. Io so, perché anche noi  qualche cosa sappiamo, che il Messia sta per venire, il Messia, Colui  che si chiama anche “il Cristo”. Quando sarà venuto ci insegnerà ogni  cosa. Qui presso c’è anche quello che dicono il suo Precursore. E molti  vanno a sentirlo. Ma è tanto severo!… Tu sei buono… e le povere anime  non hanno paura di Te. Penso che il Cristo sarà buono. Lo dicono Re  della pace. Starà molto a venire?».
    «Ti ho detto che il suo tempo è già presente».
    «Come lo sai? Sei forse suo discepolo? Il Precursore ha molti discepoli. Anche il Cristo li avrà».
    «Sono Io che ti parlo il Cristo Gesù».
    «Tu!… Oh!…». La donna, che si era seduta presso Gesù, si alza e fa per fuggire.
    «Perché fuggi, donna?».
    «Perché ho orrore di mettere me presso a Te. Sei santo…».
     «Sono il Salvatore. Sono venuto qui – non era necessario – perché  lo sapevo che la tua anima era stanca di essere errante. Ti sei nauseata  del tuo cibo… Sono venuto a darti un cibo nuovo e che ti leverà nausea e  stanchezza…
                                                                                                          
  143.5  Ecco i miei discepoli che tornano col mio pane. Ma già Io sono nutrito  dall’avere dato a te le briciole iniziali della tua redenzione».
     I discepoli sbirciano, più o meno prudentemente, la donna, ma nessuno  parla. Lei se ne va senza più pensare all’acqua e all’anfora.
     «Ecco, Maestro», dice Pietro. «Ci hanno trattato bene. Qui vi è cacio,  pane fresco, ulive e mele. Prendi ciò che vuoi. Quella donna ha fatto  bene a lasciare l’anfora. Faremo più presto che con le nostre piccole  vesciche. Berremo e le faremo piene. Senza avere da chiedere altro ai  samaritani. Neppure di avvicinarsi alle loro fontane. Non mangi? Volevo  trovarti del pesce, ma non ce n’è. Forse ti piaceva di più. Sei stanco e  pallido».
    «Ho un cibo che voi non conoscete. Mangerò di quello. Mi ristorerà molto».
    I discepoli si guardano fra loro interrogativamente.
     Gesù risponde alle loro mute interrogazioni. «Mio cibo è fare la  volontà di Colui che mi ha mandato e portare a termine l’opera che è suo  desiderio Io compia. Quando un seminatore getta il seme, può forse dire  di avere già tutto fatto per dire che ha raccolto? No, davvero. Quanto  ancora ha da fare per dire: “Ecco che la mia opera è compiuta”! E fino a  quell’ora non può riposare. Guardate questi campicelli sotto il lieto  sole dell’ora di sesta. Solo un mese fa, anche meno di un mese, la terra  era nuda, scura per essere bagnata dalle piogge. Ora guardate. Steli e  steli di grano, appena spuntati, di un verde tenuissimo, che nella gran  luce pare anche più chiaro, la fanno come coperta di un tenue velo  biancheggiante. Questa è la messe futura e voi, vedendola, dite: “Fra  quattro mesi è il raccolto. I seminatori prenderanno i mietitori, perché  se uno è sufficiente a seminare il suo campo molti necessitano per  mieterlo. E ambi sono contenti. Tanto colui che ha seminato un piccolo  sacchetto di grano, e ora deve preparare granai a riceverlo, come coloro  che in pochi giorni guadagnano di che vivere per qualche mese”. Anche  nel campo dello spirito coloro che mieteranno ciò che Io ho seminato si  rallegreranno con Me e come Me, perché Io darò loro il mio salario e il  frutto debito. Darò di che vivere nel mio Regno eterno. Voi non avete  che da mietere. Il più duro lavoro Io l’ho fatto. Eppure vi dico:  “Venite. Mietete nel mio campo. Io sono lieto che voi vi carichiate dei  manipoli del mio grano. Quando tutto il mio grano che Io avrò seminato,  instancabile, ovunque, sarà da voi raccolto, allora sarà compiuta la  volontà di Dio ed Io mi siederò al banchetto della celeste Gerusalemme”.  Ecco che vengono i samaritani con Fotinai. Usate carità con essi. Sono  anime che vengono a Dio».

[102] Giacobbe, figlio di Isacco e fratello di Esaù. La sua storia è in: Genesi 25, 1934; 26-36; 37, 1; 46, 1-7; 47, 27-31; 48-49; 50, 1-14. Non vi è menzionato il suo pozzo in Samaria, la cui esistenza viene fatta risalire al passo di: Genesi 33, 1819; Giosuè 24, 32. Una volta per tutte rinviamo a Genesi 28, 10-15 per il sogno o la scala di Giacobbe (citati almeno in: 5.2 - 50.7 - 89.1 - 111.5 - 130.7 - 194.2); a Genesi 25, 29-34 per la primogenitura  venduta da Esaù a Giacobbe per una minestra di lenticchie (episodio  richiamato in: 239.8 - 402.2 - 503.8 - 604.39). Altri rinvii, come  quello di 364.9, vengono annotati di volta in volta. Soprannominato  “Israele” (Genesi 32, 29), Giacobbe ebbe 12 figli, dai quali si  fanno discendere le 12 tribù (più volte citate nell’opera valtortiana,  specialmente in 600.8.24) che formarono il popolo ebraico: gli  “israeliti”. Non appartiene al libro della Genesi la profezia  della “Stella di Giacobbe”, di cui trattiamo in nota a 436.2. – I rinvii  biblici su Giacobbe includono la storia di Rachele, donna  ricordata più volte (a partire da 27.3) soprattutto per il suo sepolcro  presso Betlemme. Fu la seconda sposa (dopo Lia, sua sorella maggiore) di  Giacobbe. Un accenno alla sua maternità in 104.4, alle sue virtù in  300.2, alla sua bellezza in 525.5.


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