02139 - SPIRITUALITÀ

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Vol.02 • cap.139 •
Sui monti presso Emmaus. Il carattere di Giuda Iscariota e le qualità dei buoni.

  17 aprile 1945.
  139.1  Gesù coi suoi è in un luogo molto montagnoso. La via è scomoda e aspra,  e i più anziani fanno una bella fatica. I giovani, invece, sono tutti  lieti intorno a Gesù e salgono agili, chiacchierando fra loro.
    I  due cugini, i due figli di Zebedeo e Andrea sono esilarati dal pensiero  di tornare in Galilea, e la loro gioia è tale che avvince anche  l’Iscariota, che da qualche tempo è nelle migliori disposizioni di  spirito. Si limita a dire: «Però, Maestro, per Pasqua, quando si viene  al Tempio… ci torni a Keriot? Mia madre spera sempre di averti. Me lo ha  fatto sapere. E così i miei compaesani…».
    «Di certo. Ora, anche  volendo, è troppo aspra stagione per mettersi per quelle vie impervie.  Vedete come è faticoso anche qui. E, senza quell’imposizione, non avrei  intrapreso ora il cammino… Ma non si poteva più stare…». Gesù tace,  pensieroso.
    «E dopo, voglio dire per Pasqua, si potrà venire? Io vorrei mostrare la tua grotta a Giacomo e ad Andrea», dice Giovanni.
    «Ti dimentichi l’amore di Betlemme per noi?», chiede l’Iscariota. «Per il Maestro, anzi».
    «No. Ma andrei io con Giacomo e Andrea. Gesù potrebbe stare a Jutta o a casa tua…».
     «Oh! questo mi piace. Lo farai, Maestro? Loro vanno a Betlem, Tu  stai con me a Keriot. Proprio con me solo non ci sei mai stato… e ne ho  tanta voglia di averti tutto per me…».
    «Geloso sei? Non sai che  Io vi amo tutti ad un modo? Non credi che Io sono con tutti voi, anche  quando pare vi sia lontano?».
    «Lo so che ci ami. Se non ci  amassi dovresti essere ben più severo, con me almeno. Credo che il tuo  spirito vegli sempre su noi. Ma non siamo tutto spirito. C’è anche  l’uomo, coi suoi amori d’uomo, i suoi desideri, i suoi rimpianti. Gesù  mio, io so che non sono quello che più ti fa felice. Ma credo che Tu  sappia come è vivo in me il desiderio di piacerti e il rimpianto per  tutte le ore che ti perdo per la mia miseria…».
    «No, Giuda. Non ti perdo. Ti sono più vicino che agli altri appunto perché conosco chi tu sei».
                                                                                                          
  139.2 «Che sono, mio Signore? Dillo. Aiutami a capire cosa sono.
    Io non mi capisco. Mi pare di essere una donna turbata da voglie di concepimento. Ho appetiti santi e appetiti depravati.
    Perché? Che sono io?».
     Gesù lo guarda con uno sguardo indefinibile. È mesto, ma di una  mestizia infusa di pietà. Tanta pietà. Sembra un medico che constati lo  stato di un malato e sappia che è un malato che non può guarire… Ma non  parla.
    «Dillo, Maestro mio. Il tuo giudizio sarà sempre il meno  severo di tutti sul povero Giuda. E poi… siamo fra fratelli. Non mi  importa che sappiano di che sono fatto. Anzi, sapendolo da Te,  correggeranno il loro giudizio e mi aiuteranno. Non è vero?».
    Gli altri sono impacciati e non sanno che dire. Guardano il compagno, guardano Gesù.
     Gesù si attira vicino l’Iscariota, al posto dove prima era il  cugino Giacomo, e dice: «Tu sei semplicemente un disordinato. Hai in te  tutti gli elementi migliori. Ma non li hai ben fissi. E il minimo soffio  di vento li scompagina. Poco fa siamo passati per quella gola e ci  hanno mostrato il danno fatto, alle povere case di quel paesello,  dall’acqua, dalla terra e dalle piante. L’acqua, la terra, le piante  sono cose utili e benedette, non è forse vero? Eppure lì sono divenute  maledette. Perché? Perché l’acqua del torrente non aveva un corso  ordinato, ma, anche per inerzia dell’uomo, si era scavata più letti, a  seconda del suo capriccio. Ciò era bello finché non c’erano bufere.  Allora era come un lavoro di gioielliere quell’acqua chiara che rigava  il monte in piccoli rivi, vezzi di diamanti o collane di smeraldi a  seconda che riflettevano la luce o l’ombra dei boschi. E l’uomo ne  godeva perché erano utili, quelle chiacchierine vene d’acqua, per i suoi  campicelli. Così come erano belle le piante nate, per scherzo di venti,  a capricciosi ciuffi or qua e or là, lasciando radure piene di sole. E  bella era la terra soffice, deposta da chissà quali lontane alluvioni  fra ondulazione e ondulazione del monte, così fertile per le colture. Ma  è bastato che venissero le bufere di un mese fa perché le capricciose  righe del torrente si unissero e disordinatamente traboccassero per  altra via, travolgendo le disordinate piante e trascinando a valle i  disordinati pezzi di terra. Se le acque fossero state tenute ordinate,  se le piante fossero state regolate in ordinati boschi, se la terra  fosse stata ordinatamente sostenuta con opportuni ripari, ecco che i tre  buoni elementi del legno, dell’acqua, del suolo non sarebbero divenuti  rovina e morte per quel paesello. Tu hai intelligenza, ardimento,  istruzione, prontezza, prestanza, tante, tante cose hai. Ma sono  selvaggiamente disposte in te e tu tali le lasci. Vedi: tu abbisogni di  un lavoro paziente e costante su te stesso per mettere ordine, che è poi  anche robustezza, nelle tue qualità, di modo che, quando venga bufera  di tentazione, il buono che in te hai non divenga un male per te e per  gli altri».
    «Hai ragione, Maestro. Ogni tanto io vengo sconvolto da un vento e tutto si arruffa. E dici che io potrei…».
    «La volontà è tutto, Giuda».
                                                                                                          
  139.3 «Ma ci sono tentazioni tanto mordenti… Ci si rintana per paura che il mondo ce le legga sul volto».
     «Ecco l’errore! Sarebbe proprio quello il momento di non  rintanarsi. Ma di cercare il mondo, quello dei buoni per averne aiuto.  Anche il contatto con la pace dei buoni calma la febbre. E cercare anche  il mondo dei criticatori perché, per quell’orgoglio che spinge a  nascondersi per non essere “letti” nei nostri animi tentati, ciò farebbe  un reagente alla debolezza morale. E non si cadrebbe».
    «Tu ti sei messo nel deserto…».
    «Perché lo potevo fare. Ma guai ai soli se non sono, nella loro solitudine, moltitudine contro la moltitudine».
    «Come? Non capisco».
    «Moltitudine di virtù contro moltitudine di tentazioni.
    Quando poca è la virtù, occorre fare come quest’edera molle: afferrarsi ai rami di alberi robusti, per salire».
    «Grazie, Maestro. Io mi attacco a Te e ai compagni. Ma aiutatemi tutti. Voi siete tutti migliori di me».
     «È stato migliore l’ambiente parco e onesto in cui siamo cresciuti,  amico. Ma ora tu sei con noi, e noi ti vogliamo bene. Vedrai… Non è per  criticare la Giudea, ma credi che in Galilea c’è, almeno nei nostri  paesi, meno ricchezza e meno corruzione. Tiberiade, Magdala, altri  luoghi di tripudio, ci sono vicini. Ma noi viviamo con la “nostra” anima  semplice, rozza, se vuoi, ma operosa, santamente contenta di ciò che da  Dio ci è concesso», dice Giacomo di Alfeo.
    «Ma la mamma di Giuda è una santa donna, sai, Giacomo?
    Le si vede la bontà scritta sul viso», obbietta Giovanni.
     Giuda di Keriot gli sorride, felice della lode, e il suo sorriso  aumenta quando Gesù conferma: «Hai detto bene, Giovanni. È una santa  creatura».
    «Eh! sì! Ma era sogno di mio padre di fare di me un  grande del mondo, e mi ha staccato molto presto e troppo profondamente  dalla madre mia…».
                                                                                                          
  139.4  «Ma che avete da dire che sempre parlate?», chiede da lontano Pietro.  «Fermatevi! Aspettateci. Non è bello andare così senza pensare che io  sono di gambe corte».
    Si fermano finché l’altro gruppo li ha raggiunti.
    «Auf! Come ti voglio bene, barchetta mia! Qui si fatica come schiavi… Che dicevate?».
    «Dicevamo le qualità per essere buoni», risponde Gesù.
    «E a me non le dici, Maestro?».
    «Ma sì: ordine, pazienza, costanza, umiltà, carità… Le ho dette molte volte!».
    «Ma l’ordine no. Che c’entra?».
     «Il disordine non è mai buona qualità. L’ho spiegato a questi tuoi  compagni. Te lo diranno. E l’ho messo per primo, mentre ho messo per  ultima la carità, perché sono i due estremi della retta della  perfezione. Ora tu sai che una retta messa in piano non ha principio e  non ha fine. Ambedue gli estremi possono essere principio e possono  essere fine, mentre di una spirale, o di un qualsiasi altro disegno che  non sia chiuso in se stesso, vi è sempre un principio e una fine. La  santità è lineare, semplice, perfetta, e non ha che due estremi, come la  retta».
    «È facile fare una retta…».
    «Lo credi? Ti  sbagli. In un disegno, anche complicato, può passare inavvertito qualche  difetto. Ma nella retta subito si vede ogni errore, o di pendenza o di  incertezza. Giuseppe, quando mi insegnava il mestiere, insisteva molto  nella dirittura delle tavole e giustamente mi diceva: “Vedi, figlio mio?  Può ancora passare una lieve imperfezione in un ornato o in un lavoro  di tornio, perché l’occhio, non espertissimo, se osserva un punto non  vede l’altro. Ma se un’asse non è diritta a dovere, neppure il più  semplice lavoro, quale è una povera tavola di contadini, riesce. O pende  o imbarca. Non serve più che al fuoco”. Possiamo dire questo anche per  le anime. Per non servire più altro che al fuoco infernale, ossia per  conquistare il Cielo, bisogna essere perfetti come un’asse piallata e  squadrata a dovere. Chi inizia la sua lavorazione spirituale con  disordine, cominciando dalle cose inutili, saltando come un uccello  irrequieto da questo a quello, finisce che quando vuole riunire le parti  del lavoro non riesce più. Non combinano. Perciò ordine. Perciò carità.  Poi, tenendo fisse nelle due morse questi estremi, che non scappino  mai, lavorare a tutto il resto, ornati o intagli che siano. Hai  capito?».
                                                                                                       
 139.5  «Ho capito». Pietro si mastica in silenzio la sua lezione e conclude  all’improvviso: «Allora mio fratello è più bravo di me. Lui è proprio  ordinato. Un passo dopo l’altro, zitto, calmo. Sembra che non si muova e  invece… Io vorrei fare presto e tanto. E non faccio nulla. Chi mi  aiuta?».
    «Il tuo buon desiderio. Non temere, Pietro. Fai anche tu. Ti fai».
    «E io?».
    «Anche tu, Filippo».
    «E io? Mi pare di non essere proprio buono a nulla, io».
    «No, Tommaso. Anche tu ti lavori. Tutti, tutti vi lavorate.
    Siete alberi selvaggi, ma gli innesti vi cambiano lentamente e sicuramente, ed Io ho in voi la mia gioia».
    «Ecco. Siamo tristi e Tu ci consoli. Deboli e ci fortifichi.
     Paurosi e ci dài coraggio. Per tutti, e per tutti i casi, hai  pronto il consiglio e il conforto. Come fai, Maestro, ad essere sempre  pronto e buono così?».
    «Amici miei, sono venuto per questo,  sapendo già ciò che avrei trovato e ciò che dovevo fare. Senza illusioni  non si hanno delusioni, non si perde perciò lena. Si va avanti.  Ricordatevelo, per quando voi pure dovrete lavorare l’uomo animale per  farne l’uomo spirituale».


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