02136 - SPIRITUALITÀ

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Vol.02 • cap.136 • La festa delle Encenie nella casa di Lazzaro.
Predizione sugli spiriti che risorgono per propria volontà e rievocazione della nascita di Gesù.

  22 marzo 1945.
  136.1  La già splendida casa di Lazzaro questa sera è splendidissima. Sembra  che prenda fuoco per il numero di lumi che vi ardono, e la luce si  rovescia al di fuori, in questo primo principio di notte, traboccando  dalle sale nell’atrio e da questo nel portico, allungandosi a vestire  d’oro le ghiaie dei sentieri, le erbe ed i cespugli delle aiuole,  lottando, e vincendo nei primi metri, col chiaro della luna col suo  giallo e carnale splendore, mentre più oltre tutto diviene angelico per  la veste di puro argento che la luna getta su tutte le cose.
     Anche il silenzio che fascia il magnifico giardino, in cui ha voce solo  l’arpeggio dello zampillo nella peschiera, pare aumentare la raccolta e  paradisiaca pace della notte lunare, mentre presso la casa voci allegre e  numerose, insieme a gaio rumore di mobili smossi e stoviglie portate  sulle mense, ricordano che l’uomo è uomo e non ancora spirito.
     Marta va svelta nella sua ampia veste splendida e pudica di un color  viola rosso, e sembra un fiore, una bella campanula o una farfalla che  si agiti contro le pareti purpuree dell’atrio o quelle a minuti disegni,  che paiono un tappeto, della sala del convito.
    Gesù, invece,  passeggia solo e assorto presso la peschiera, e pare venga assorbito  alternativamente dall’ombra scura che proietta un alto alloro, un vero  albero gigante, o dalla fosforica luce lunare che si fa sempre più  netta. Così viva che lo zampillo della vasca pare un piumetto d’argento  che si frantumi poi in scaglie di brillanti, che ricadono a perdersi  sulla lastra queta, tutta argento, della vasca. Gesù guarda e ascolta le  parole dell’acqua nella notte. Esse acquistano un suono così musicale  che se ne desta un usignolo nell’alloro folto e risponde all’arpeggio  lento delle gocce con un acuto di flauto, e poi sosta, come per prendere  nota e mettersi sull’accordo dell’acqua, e infine attacca, da re del  canto, il suo perfetto, variato, morbido inno di gioia.
    Gesù non  cammina neppure più per non turbare col fruscio dei passi la serena  gioia dell’usignolo, e credo anche sua, perché sorride stando a capo  chino, di un sorriso di veramente serena gioia. Quando l’usignolo, dopo  una nota purissima tenuta e modulata per tono ascendente, che non so  come possa una così piccola gola sostenerla, cessa di cantare, Gesù  esclama: «Te benedetto, Padre santo, per questa perfezione e per la  gioia che mi hai dato!», e riprende la sua lenta passeggiata piena di  chissà quali profondità di meditazione.
                                                                                                          
  136.2 Lo raggiunge Simone: «Maestro, Lazzaro ti prega di venire.
    Tutto è pronto».
    «Andiamo. E così cada anche l’ultimo dubbio che Io li ho meno cari per causa di Maria».
     «Quanto pianto, Maestro! Solo un tuo segreto miracolo ha potuto  medicare quel dolore. Ma non sai che Lazzaro fu per fuggire dopo che  ella, al loro ritorno, uscì di casa dicendo che lasciava i sepolcri per  la gioia e… altre insolenze? Io e Marta lo abbiamo scongiurato a non  farlo, anche perché… non si sa mai la reazione di un cuore. L’avesse  trovata, io credo che l’avrebbe punita una volta per tutte. Avrebbero  voluto almeno il silenzio, da lei, su Te…».
    «E l’immediato  miracolo di Me su lei. E l’avrei potuto fare. Ma non voglio una  risurrezione forzata nei cuori. Forzerò la morte e mi renderà le sue  prede. Perché Io sono il Padrone della morte e della vita. Ma sugli  spiriti, che non sono materia che senza soffio è priva di vita, ma sono  immortali essenze capaci di risorgere per volontà propria, Io non forzo  la risurrezione. Do il primo appello e il primo aiuto, come uno che  aprisse un sepolcro dove uno fu chiuso mal vivo e dove morrebbe se a  lungo rimanesse in quelle tenebre asfissianti, e lascio entrare aria e  luce… poi attendo. Se lo spirito è voglioso di uscirne, esce. Se non  vuole così, si infosca ancor più e sprofonda. Ma se esce!… Oh! se esce,  in verità ti dico che nessuno sarà più grande del risorto di spirito.  Solo l’Innocenza assoluta è più grande di questo morto che torna vivo  per forza di proprio amore e per gioia di Dio… I miei più grandi  trionfi!
    Guarda il cielo, Simone. Tu vedi in esso stelle e  stelline, e pianeti di diverse grandezze. Tutti hanno vita e splendore  per Dio che li ha fatti e per il sole che li illumina, ma non tutti sono  ugualmente splendidi e grandi. Anche nel mio cielo sarà così. Tutti i  redenti avranno vita per Me e splendore per la mia luce. Ma non tutti  saranno ugualmente splendidi e grandi. Taluni saranno una semplice  polvere d’astri, come quella che fa lattea Galatea, e saranno quelli,  innumerabili, che dal Cristo avranno avuto, meglio, avranno aspirato  solo quel minimo indispensabile per non essere dei dannati, e soltanto  per l’infinita misericordia di Dio, dopo lungo purgatorio, verranno al  Cielo. Altri saranno più fulgidi e formati: i giusti che avranno unito  la loro volontà – nota: volontà, non buona volontà – al volere del  Cristo e avranno ubbidito, per non dannarsi, alle mie parole. Poi vi  saranno i pianeti, le buone volontà, oh! splendidissimi! Della luce di  puro diamante o di gemmeo splendore dai diversi colori – rossi di  rubino, violacei d’ametista, biondi di topazio, candidi di perle – gli  innamorati fino alla morte per l’amore, i penitenti per amore, gli  operanti per amore, gli immacolati per amore.
    E ve ne saranno  alcuni, di questi pianeti, e saranno le mie glorie di Redentore, che  avranno in loro bagliori di rubino, di ametista, di topazio e di perla,  perché tutto saranno per amore. Eroici per giungere a  perdonarsi di non aver saputo amare prima, penitenti per saturarsi di  espiazione come Ester[93]  prima di presentarsi ad Assuero si saturò di aromi, instancabili per  fare in poco, nel poco che loro resta, quanto non fecero negli anni che  spersero nel peccato, puri fino all’eroicità per dimenticare, anche  nelle viscere oltre che nell’anima e nel pensiero, che vi è un senso.  Saranno quelli che attireranno per il loro multiforme splendore gli  occhi dei credenti, dei puri, dei penitenti, dei martiri, degli eroi,  degli asceti, dei peccatori, e per ognuna di queste categorie il loro  splendore sarà parola, risposta, invito, assicurazione…
                                                                                                          
  136.3 Ma andiamo. Noi parliamo e là ci attendono».
     «È che quando Tu parli si dimentica d’essere vivi. Posso dire tutto  questo a Lazzaro? Mi pare che in esso ci sia una promessa…».
    «Lo devi  dire. La parola dell’amico può posarsi sulla loro ferita e non  arrossiranno di essere arrossiti davanti a Me… Ti abbiamo fatto  attendere, Marta. Ma parlavo a Simone di stelle e ci siamo dimenticati  di queste luci. Veramente la tua casa è un firmamento questa sera…».
     «Non solo per noi e per i servi, ma anche per Te e per gli ospiti  tuoi amici abbiamo acceso. Grazie di essere venuto per l’ultima sera.  Ora la festa è proprio la Purificazione…». Marta vorrebbe dire di più,  ma sente salire il pianto e tace.
    «Pace a tutti voi», dice Gesù  entrando nell’atrio folgorante di decine di lumi di argento, tutti  accesi e posti per ogni dove.
    Lazzaro si fa avanti sorridente:  «Pace e benedizione a Te, Maestro, e molti anni di santa felicità». Si  baciano. «Mi hanno detto certi nostri amici che Tu sei nato mentre  Betlemme ardeva per una lontana Encenie. Di averti questa sera noi ed  essi giubiliamo. Non chiedi chi sono?».
    «Altri amici non ho, che non siano i discepoli e i cari di Betania, fuor dei pastori. Sono dunque essi. Venuti? A che?».
     «Ad adorarti, Messia nostro. Lo sapemmo da Gionata e qui siamo. Coi  nostri armenti, ora nelle stalle di Lazzaro, e coi nostri cuori ora e  sempre sotto i tuoi piedi santi».
    Isacco ha parlato per Elia,  Levi, Giuseppe e Gionata, che sono tutti prostrati ai suoi piedi:  Gionata nella soffice veste dell’intendente beneamato dal padrone;  Isacco nella sua di instancabile pellegrino, di grossa lana marrone  scuro, impermeabile all’acqua; Levi, Giuseppe, Elia in vesti date da  Lazzaro, fresche, monde per poter assidersi alle mense senza portarvi la  povera veste stracciata e sitente di mandra dei pastori.
    «Per  questo mi avete mandato nel giardino? Dio vi benedica tutti! Non manca  che la Madre alla mia felicità. Alzatevi, alzatevi. È il mio primo  Natale che faccio senza la Madre. Ma la vostra presenza mi solleva dalla  tristezza, dalla nostalgia del suo bacio».
                                                                                                          
  136.4  Entrano tutti nella stanza delle mense. Qui i lumi sono per la maggior  parte in oro e il metallo si avviva della luce delle fiamme, e le fiamme  sembrano più splendide per il riflesso che dà loro tanto oro. La tavola  è stata messa a U per dare posto a tanta gente e poterla servire senza  ostacolare le operazioni degli scalchi e dei servi. Oltre a Lazzaro vi  sono gli apostoli, i pastori, Massimino, il vecchio servo di Simone.
     Marta sorveglia la disposizione dei posti e vorrebbe stare in  piedi. Ma Gesù si impone: «Oggi non sei l’albergatrice, sei la sorella e  ti siedi come mi fossi di un sangue. Siamo una famiglia. Cadano le  regole per dare posto all’amore. Qui, al mio lato, e presso te Giovanni.  Io con Lazzaro. Ma datemi un lume. Fra Me e Marta vegli una luce… una  fiamma, per le assenti e pure presenti: per le amate, le attese, per le  donne care e lontane. Tutte. La fiamma ha parole di luce.  L’amore ha parole di fiamma, e vanno lontano queste parole, sull’onda  incorporea degli spiriti che si trovano sempre, oltre monti e mari, e  portano baci e benedizioni… Tutto portano. Non è forse vero?».
     Marta posa la lampada dove Gesù vuole, ad un posto che resta vuoto… e,  poiché Marta capisce, si curva a baciare la mano di Gesù, che poi le si  posa sulla testa bruna, benedicente e riconfortante.
                                                                                                          
  136.5  Il pasto ha inizio. Un poco confusi sul principio i tre pastori –  mentre Isacco è già più sicuro e Gionata non mostra disagio – ma si  rinfrancano sempre più, più il pasto procede, e dopo avere taciuto  parlano. E di che devono parlare se non del loro ricordo?
     «Ci eravamo ritirati da poco», dice Levi. «Ed io avevo tanto freddo  che mi rifugiai fra le pecore, piangendo per desiderio della mamma…».
     «Io pensavo invece alla giovane madre che avevo incontrata poco  prima e mi dicevo: “Avrà trovato posto?”. Ad averlo saputo che era in  una stalla! Nello stabbio l’avrei condotta!… Ma era così gentile – un  giglio delle nostre valli – che mi parve offesa dirle: “Vieni fra noi”.  Ma pensavo a Lei… e sentivo ancora più il freddo pensando a quanto la  doveva far soffrire.
    Ti ricordi che luce quella sera? E la tua paura?».
    «Sì… ma poi… l’angelo… Oh!…». Levi, un poco trasognato, sorride al suo ricordo.
     «Oh! sentite un poco, amici. Noi non sappiamo che poco e male.  Abbiamo sentito parlare di angeli, di greppie, di greggi, di Betlemme… E  noi sappiamo che Lui è galileo e falegname… Non è giusto che non si  sappia noi! Al Maestro l’ho chiesto all’Acqua Speciosa… ma poi si parlò  d’altro. Costui, che sa, non mi ha detto nulla… Sì, parlo a te, Giovanni  di Zebedeo. Bel rispetto che hai per l’anziano! Tieni tutto per te e mi  lasci crescere da discepolo zuccone. Non lo sono già di mio  abbastanza?».
    Ridono per lo sdegno buono di Pietro. Ma lui si  volge al suo Maestro: «Ridono. Ma ho ragione»; e poi a Bartolomeo,  Filippo, Matteo, Tommaso, Giacomo e Andrea: «Avanti, ditelo anche voi,  protestate con me! Perché non sappiamo nulla noi?».
    «Veramente… Dove eravate quando moriva Giona? e dove sul Libano?».
     «Hai ragione. Ma per Giona, io almeno, l’ho creduto delirio di  morente, e sul Libano… ero stanco e assonnato. Perdonami, Maestro, ma è  la verità».
    «E sarà la verità di tanti! Il mondo degli  evangelizzati sovente risponderà al Giudice eterno, per scusare la sua  ignoranza nonostante l’insegnamento dei miei apostoli, risponderà ciò  che tu dici: “Lo credetti delirio… Ero stanco e assonnato”. E sovente  non ammetterà la verità perché la scambierà per delirio, e non ricorderà  la verità perché sarà stanco e assonnato per troppe cose inutili,  caduche, peccaminose anche. Una sola cosa è necessaria: conoscere  Iddio».
    «Ebbene, ora che ci hai detto quello che ci sta bene,  raccontaci le cose come sono state… Al tuo Pietro. Poi le dico alla  gente. Se no… te l’ho detto: che posso dire? Il passato non lo so, le  profezie e il Libro non lo so spiegare, il futuro… oh! povero me! E che  evangelizzo allora?».
    «Sì, Maestro. Che si sappia anche noi…  Sappiamo che sei il Messia e lo crediamo. Ma, almeno per mio conto, ho  dovuto faticare ad ammettere che da Nazaret potesse venire del buono…
    Perché non mi hai subito reso noto il tuo passato?», dice Bartolomeo[94].
    «Per provare la tua fede e la luminosità del tuo spirito.
                                                                                                          
  136.6  Ma ora vi parlerò, anzi, vi parleremo del mio passato. Io dirò ciò che  anche i pastori non sanno, ed essi ciò che videro. E conoscerete l’alba  di Cristo. Udite.
    Essendo venuto il tempo della Grazia, Dio si  preparò la sua Vergine. Voi bene potete comprendere come non potesse  risiedere Dio là dove Satana aveva messo un incancellabile segno. Perciò  la Potenza operò per fare il suo futuro tabernacolo senza macchia. E da  due giusti, in vecchiezza e contro le regole comuni[95] del procreare, fu concepita Quella su cui non è macchia veruna.
     Chi depose quell’anima nella carne embrionale che rinverdiva il  vecchio seno di Anna di Aronne, la nonna mia? Tu, Levi, hai visto  l’arcangelo di tutti gli annunzi. Puoi dire: è quello.
    Perché la “Forza di Dio”[96]  fu sempre il vittorioso che portò lo squillo di gioia ai santi e ai  Profeti, l’indomabile sul quale la pur grande forza di Satana si spezzò  come stelo di musco disseccato, l’intelligente che stornò con la buona e  lucida intelligenza le insidie dell’altro intelligente ma malvagio,  rendendo con prontezza eseguito il comando di Dio.
    In un grido  di giubilo egli, l’Annunziatore che già conosceva le vie della Terra per  essere sceso a parlare ai Profeti, raccolse dal Fuoco divino la  immacolata scintilla che era l’anima della eterna Fanciulla e,  serrandola in un cerchio di fiamme angeliche, quelle del suo spirituale  amore, la portò sulla Terra, in una casa, in un seno. E il mondo, da  quel momento, ebbe l’Adoratrice; e Dio, da quel momento, poté guardare  un punto della Terra senza averne disgusto. E nacque una creaturina:  l’Amata di Dio e degli angeli, la Consacrata a Dio, la santamente Amata  dai parenti.
    “E Abele dette a Dio le primizie del suo gregge”.  Oh! che in verità i nonni dell’eterno Abele seppero dare a Dio la  primizia del loro bene, tutto il loro bene, morendo per avere dato  questo bene a chi lo aveva loro dato!
    Mia Madre fu la Fanciulla  del Tempio dai tre ai quindici anni e affrettò la venuta del Cristo con  la forza del suo amare. Vergine avanti il suo concepimento, vergine  nelle oscurità d’un seno, vergine nei suoi vagiti, vergine nei suoi  primi passi, la Vergine fu di Dio, di Dio solo, e proclamò il suo  diritto, superiore al decreto della Legge d’Israele, ottenendo dallo  sposo a Lei dato da Dio di rimanere inviolata dopo le nozze.
     Giuseppe di Nazaret era un giusto. Solo a lui poteva essere dato il  Giglio di Dio e solo lui lo ebbe. E, angelo nell’anima e nella carne,  egli amò come amano gli angeli di Dio. L’abisso di questo forte amore,  che ebbe tutte le tenerezze coniugali senza sorpassare la barriera di  celeste fuoco oltre la quale era l’Arca del Signore, sarà compreso solo  da pochi sulla Terra. È la testimonianza di ciò che può un giusto sol  che voglia. Ciò che può, perché anche l’anima, ancor lesa dalla macchia  d’origine, ha forze potenti di elevazione, e ricordi e ritorni alla sua  dignità di figlia di Dio, e divinamente opera per amore del Padre.
     Ancora era Maria nella sua casa, in attesa della unione con lo  sposo, quando Gabriele, l’angelo dei divini annunzi, tornò sulla Terra e  chiese alla Vergine d’essere Madre. Già aveva promesso al sacerdote  Zaccaria il Precursore e non era stato cre duto. Ma la Vergine credette  che ciò potesse essere per volere di Dio e, sublime nella sua ignoranza,  chiese solo: “Come può ciò avvenire?”.
    E l’angelo le rispose:  “Tu sei la Piena di Grazia, o Maria. Non temere dunque, ché grazia hai  trovato presso il Signore anche per quanto è la tua verginità. Tu  concepirai e partorirai un Figlio al quale metterai nome Gesù, perché  Egli è il Salvatore promesso a Giacobbe e a tutti i Patriarchi e Profeti  d’Israele. Egli sarà grande e Figlio vero dell’Altissimo, perché per  opera di Spirito Santo sarà concepito. A Lui il Padre darà il trono di  Davide, come è predetto, e regnerà sulla casa di Giacobbe sino alla fine  dei secoli, ma il suo vero Regno non avrà mai fine. Ora il Padre, il  Figlio e lo Spirito Santo attendono la tua ubbidienza per compiere la  promessa. Già è il Precursore del Cristo nel seno di Elisabetta, tua  cugina, e se tu consenti lo Spirito Santo scenderà su te, e santo sarà  Colui che da te nascerà e porterà il suo vero nome di Figlio di Dio”.
     E allora Maria rispose: “Ecco l’Ancella del Signore. Si faccia di  me secondo la sua parola”. E lo Spirito di Dio scese sulla sua Sposa e  nel primo abbraccio le impartì le sue luci che sopra-perfezionarono le  virtù di silenzio, umiltà, prudenza e carità di cui Ella era piena, ed  Ella fu tutt’una con la Sapienza, e non più fu scindibile dalla Carità, e  l’Ubbidiente e Casta si perse nell’oceano della Ubbidienza che Io sono,  e conobbe la gioia d’esser Madre senza conoscere il turbamento d’esser  sfiorata. Fu la neve che si concentra in fiore e si offre a Dio così…».
                                                                                                          
  136.7 «Ma il marito?», chiede sbalordito Pietro.
     «Il sigillo di Dio chiuse le labbra di Maria. E Giuseppe non seppe  del prodigio che quando, di ritorno dalla casa di Zaccaria parente,  Maria apparve madre agli occhi dello sposo».
    «E che fece lui?».
    «Soffrì… e soffrì Maria…».
    «Se ero io…».
     «Giuseppe era un santo, Simone di Giona. Dio sa dove mettere i suoi  doni… Acerbamente soffrì e decise di abbandonarla, addossandosi taccia  di ingiusto. Ma l’angelo scese a dirgli: “Non temere di prendere con te  Maria tua sposa. Perché quello che in Lei si forma è il Figlio di Dio e  per opera di Dio Ella è Madre. E quando il Figlio sarà nato gli metterai  nome Gesù, perché Egli è il Salvatore”».
    «Era dotto Giuseppe?», chiede Bartolomeo.
    «Come un discendente di Davide».
    «Allora avrà avuto subita luce nel ricordare il Profeta: “Ecco una vergine concepirà…”».
    «Sì. La ebbe. Alla prova successe il gaudio…».
     «Se ero io…», torna a dire Simon Pietro, «non succedeva, perché  prima avrei… Oh! Signore, come è stato bene che non fossi io! L’avrei  spezzata come uno stelo senza darle tempo di parlare. E dopo, se  assassino non fossi stato, avrei avuto paura di Lei… La paura di tutto  Israele, da secoli, per il Tabernacolo…».
    «Anche Mosè ebbe paura  di Dio, e pure fu soccorso e stette con Lui sul monte… Giuseppe andò  dunque nella casa santa della Sposa e provvide ai bisogni della Vergine e  del Nascituro. E venendo per tutti il tempo dell’editto, con Maria andò  nella terra dei padri, e Betlemme li respinse perché il cuore degli  uomini è chiuso alla carità.
                                                                                                          
  136.8 Ora parlate voi».
     «Io incontrai verso sera una donna giovane e sorridente a cavallo  d’un somarello. Un uomo era con lei. Mi chiese del latte e informazioni.  Ed io dissi ciò che sapevo… Poi venne la notte… e una grande luce… e  uscimmo… e Levi vide un angelo presso lo stabbio. E l’angelo disse: “È  nato il Salvatore”. Era la notte piena. E pieno di stelle era il cielo.  Ma la luce si perdeva in quella dell’angelo e di mille e mille angeli…  (Elia piange ancora nel ricordare). E ci disse l’angelo: “Andate ad  adorarlo. È in una stalla, in una greppia, fra due animali… Troverete un  piccolo Bambino avvolto in poveri panni…”. Oh! come sfavillava l’angelo  dicendo queste parole!… Ma ti ricordi, Levi, le sue ali come mandavano  fiamme quando, dopo essersi inchinato per nominare il Salvatore, disse:  “…che è il Cristo Signore”?».
    «Oh! se ricordo! E le voci dei  mille? Oh!… “Gloria a Dio nei Cieli altissimi e pace in Terra agli  uomini di buona volontà!”. Quella musica è qui, è qui, e mi porta in  Cielo ogni volta che la sento», e Levi alza un viso estatico su cui luce  il pianto.
    «E andammo», dice Isacco. «Carichi come bestie da  soma, lieti come per nozze, e poi… non seppimo più far nulla quando  udimmo la tua piccola voce e quella della Madre, e spingemmo Levi,  fanciullo, perché guardasse. Noi ci sentivamo lebbrosi presso tanto  candore… E Levi ascoltava, e rideva piangendo, e ripeteva, così con voce  d’agnello che la pecora di Elia ebbe un belato. E Giuseppe venne  all’apertura e ci fece entrare… Oh! come eri piccino e bello! Un boccio  di rosa carnicina sul ruvido fieno… e piangevi… Poi ridesti per il  tepore della pelle di pecora che ti offrimmo e per il latte che ti  mungemmo… Il tuo primo pasto… Oh!… e poi… e poi ti baciammo… Sapevi di  mandorla e gelsomino… e noi non potevamo più lasciarti…».
    «Non mi avete più lasciato, infatti».
     «È vero», dice Gionata. «Il tuo viso restò in noi e la tua voce e  il tuo sorriso… Crescevi… eri bello sempre più… Il mondo dei buoni  veniva a bearsi di Te… e quello dei malvagi non ti vedeva… Anna… i tuoi  primi passi… i tre Sapienti… la stella…».
    «Oh! quella notte, che  luce! Il mondo pareva ardere con mille luci. Invece, la sera della tua  venuta, la luce era fissa e di perla… Ora era la danza degli astri,  allora l’adorazione degli astri. E noi da un’altura vedemmo passare la  carovana e le andammo dietro per vedere se si fermava… E il giorno dopo  tutta Betlemme vide l’adorazione dei Sapienti.
                                                                                                          
  136.9 E poi… Oh! non diciamo l’orrore!… Non lo diciamo!…». Elia sbiadisce nel ricordare.
    «Sì, non lo dire. Silenzio sull’odio…».
     «Il più grande dolore era non avere più Te e non sapere di Te.  Neppure Zaccaria ne sapeva. Ultima nostra speranza… Più niente».
    «Perché, Signore, non hai confortato i tuoi servi?».
     «Chiedi il perché, Filippo? Perché era prudenza farlo. Vedi che  anche Zaccaria, la cui formazione spirituale si completò dopo quell’ora,  non volle sollevare il velo. Zaccaria…».
    «Ma ci hai detto che  fu lui ad occuparsi dei pastori. E allora perché lui non disse, a loro  prima, a Te poi, che gli uni cercavano l’Altro?».
    «Zaccaria era un giusto tutto uomo.  Divenne meno uomo e più giusto nei nove mesi di mutismo, si perfezionò  nei mesi successivi alla nascita di Giovanni, ma divenne uno spirito  giusto quando sulla sua superbia di uomo cadde la smentita di Dio. Aveva  detto: “Io, sacerdote di Dio, dico che a Betlemme deve vivere  il Salvatore” e Dio gli aveva mostrato come il giudizio, anche  sacerdotale, se non è illuminato da Dio è un povero giudizio. Sotto  l’orrore del pensiero: “Potevo fare uccidere Gesù per la mia parola”  Zaccaria divenne il giusto, che ora riposa attendendo il Paradiso. E  giustizia gli insegnò prudenza e carità. Carità verso i pastori,  prudenza verso il mondo al quale doveva essere sconosciuto il  Cristo. Quando, di ritorno in patria, ci dirigemmo a Nazaret, per la  stessa prudenza che ormai guidava Zaccaria evitammo Ebron e Betlemme, e  costeggiando il mare tornammo in Galilea. Neppure il giorno della mia  maggiore età fu possibile vedere Zaccaria, partito il giorno avanti col  suo fanciullo per la stessa cerimonia.
    Dio vegliava, Dio  provava, Dio provvedeva, Dio perfezionava. Avere Dio è anche avere  sforzo, non solo avere gioia. E sforzo ebbero il padre mio d’amore e la  Madre mia d’anima e di carne. Anche il lecito fu vietato perché il  mistero fasciasse d’ombra il Messia fanciullo.
                                                                                                          
  136.10  E questo spieghi, a molti che non comprendono, la ragione duplice  dell’affanno quando fui smarrito per tre giorni. Amore di madre, amore  di padre per il fanciullo smarrito, tremore di custodi per il Messia che  poteva essere disvelato anzi tempo, terrore di avere mal tutelato la  Salute del mondo e il grande dono di Dio. Questo il motivo dell’insolito  grido: “Figlio, perché ci hai fatto questo? Tuo padre ed io,  angustiati, ti cercavamo!”. Tuo padre, tua madre… Il velo gettato sul  fulgore del divino Incarnato. E la rassicurante risposta: “Perché mi  cercavate? Non sapevate che Io devo essere attivo nelle cose del Padre  mio?”. Risposta raccolta e compresa dalla Piena di Grazia per quanto  essa vale, ossia: “Non abbiate tema. Piccolo sono, un fanciullo. Ma se  cresco, secondo umanità, in statura, sapienza e grazia agli occhi degli  uomini, Io sono il Perfetto in quanto sono il Figlio del Padre e perciò  so regolarmi con perfezione, servendo il Padre col farne splendere la  luce, servendo Dio col conservargli il Salvatore”. E così feci fino a or  è un anno.
    Ora il tempo è giunto. Si alzano i veli. E il Figlio  di Giuseppe si mostra nella sua natura: il Messia della Buona Novella,  il Salvatore, il Redentore e il Re del secolo futuro».
    «E non vedesti mai più Giovanni?».
    «Solo al Giordano, Giovanni mio, quando volli il Battesimo».
    «Sicché Tu non sapevi che Zaccaria aveva fatto del bene a questi?».
     «Ti ho detto: dopo il bagno del sangue innocente i giusti divennero  santi, gli uomini divennero giusti. Solo i demoni rimasero quel che  erano. Zaccaria imparò a santificarsi con l’umiltà, la carità, la  prudenza, il silenzio».
                                                                                                          
  136.11 «Io voglio ricordare tutto questo. Ma lo potrò?», dice Pietro.
     «Sta’ buono, Simone. Domani mi faccio ripetere tutto dai pastori.  Con pace. Nel frutteto. Uno, due, tre volte se occorre. Io ho buona  memoria, esercitata al mio banco, e ricorderò per tutti. Quando vorrai  ti potrò ripetere tutto. Non tenevo neppure le note a Cafarnao,  eppure…», dice Matteo[97].
    «Oh! non ti sbagliavi di un didramma!… Me lo ricordo…
     Bene! Te lo perdono il passato, ma proprio di cuore, se ti ricordi  questo racconto… e se me lo dici sovente. Voglio mi entri in cuore come è  in questi… come lo ebbe Giona… Oh! morire dicendo il suo Nome!…».
    Gesù guarda Pietro e sorride. Poi si alza e lo bacia sul capo brizzolato.
    «Perché, Maestro, questo tuo bacio?».
    «Perché fosti profeta. Tu morrai dicendo il mio Nome. Ho baciato lo Spirito che parlava in te».
     Poi Gesù intona forte un salmo e tutti, in piedi, fanno eco:  «“Alzatevi e benedite il Signore vostro Dio, di eternità in eternità.  Sia benedetto il suo Nome sublime e glorioso con ogni lode e  benedizione. Tu solo sei il Signore. Tu hai fatto il cielo e il cielo  dei cieli e tutto il loro esercito, la terra e tutto quello che  contiene” ecc.» (è l’inno cantato dai leviti alla festa della  consacrazione del popolo, cap. IX del II libro di Esdra); e tutto ha  termine con questo lungo canto[98], che non so se sia nel rito antico o se Gesù lo dica di suo.

[93] come Ester, nel racconto di: Ester 2, 1-18.
[94] dice Bartolomeo è un’aggiunta di MV su una copia dattiloscritta.
[95] contro le regole comuni, espressione che viene spiegata da MV con la seguente nota su una copia dattiloscritta: Maria  nacque da connubio carnale. Ma “contro le regole comuni” perché per  difetto organico e per età Anna, senza un miracolo voluto da Dio, non  avrebbe più potuto farlo.
[96] Forza di Dio è il significato etimologico di Gabriele, il nome dell’arcangelo di tutti gli annunzi, che era sceso a parlare ai Profeti, come in: Daniele 8, 15-27; 9, 20-27.
[97] dice Matteo è un’aggiunta nostra.
[98] lungo canto, che nella neo-volgata è in: Neemia 9, 5-36.


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