Regola dei Solitari di Grimlaico

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Testo italiano e note in fase di completamento. Le eventuali note sono alla fine di ogni capitolo.

Dove non indicato diversamente il testo italiano è stato tradotto dalla "Patrologia Latina", Vol. 103: col. 575B-664A -  J. P. Migne 1851. Per le note il testo di riferimento è: "Grimlaicus, Rule for Solitaries", a cura di Andrew Thornton, O.S.B., Cistercian Publications, Liturgical Press 2011.

 


 

Prologo (testo completo)

Capitolo 1: I tipi di solitari (testo completo)

Capitolo 2: I precetti più elevati riguardanti i monaci o i solitari (testo completo)

Capitolo 3: I quattro ordini di persone che vi saranno nel giorno del giudizio (testo completo)

Capitolo 4: Quali sono le vere ricchezze (testo completo)

Capitolo 5: La perfezione della giustizia (testo completo)

Capitolo 6: Coloro che rinunciano al mondo non devono avere né eredità, né proprietà (testo completo)

Capitolo 7: Dopo aver rinunciato al mondo, una persona non deve accumulare ricchezze (testo completo)

Capitolo 8: Ciò che è proprio della vita attiva, e ciò che è proprio della vita contemplativa (testo completo)

Capitolo 9: Come deve vivere nella vita attiva colui che si sforza di elevarsi alla vita contemplativa (testo completo)

Capitolo 10: Quanto differisce la vita contemplativa dall’attiva (testo completo)

Capitolo 11: Perché coloro i quali disprezzano le realtà presenti godono anche qui della beatitudine della vita contemplativa (testo completo)

Capitolo 12: Qual è e quant’è grande in questa vita la perfezione della vita contemplativa (testo completo)

Capitolo 13: Perché i santi non possono vedere pienamente Dio, prima d’essere entrati nella beatitudine della vita futura (testo completo)

Capitolo 14: I nostri santi Padri iniziarono a vivere la vita solitaria per poter raggiungere la perfezione della vita contemplativa (testo completo)

Capitolo 15: Riguardo alla procedura per accogliere i fratelli nella reclusione (testo completo)

Capitolo 16: Come deve essere la cella di reclusione (testo completo)

Capitolo 17: Non ci devono mai essere meno di due o tre solitari nello stesso tempo (testo completo)

Capitolo 18: Se i sacerdoti della campagna circostante o i giovani devono essere accolti nella vita solitaria (testo completo)

Capitolo 19: Che tipo di persona e quanto debba essere santo il solitario (testo completo)

Capitolo 20: Come i solitari devono essere istruiti, in che modo devono insegnare agli altri e come devono badare discretamente l'uno all'altro (testo completo)

Capitolo 21: I solitari diano a tutte le persone esempi di luce e vivano vite degne di lode, ma non aspirino ad essere lodati (testo completo)

Capitolo 22: Coloro che possono essere incaricati di governare, ma che fuggono dall'essere al comando perché desiderano vivere una vita di pace (testo completo)

Capitolo 23: Sulla vita ed il comportamento dei solitari e su come devono comportarsi nella vita solitaria (testo completo)

Capitolo 24: Sullo stesso argomento del capitolo precedente

Capitolo 25: Gli strumenti delle buone opere (testo completo)

Capitolo 26: Osservare i comandamenti di Dio (testo parziale)

Capitolo 27: Una deplorevole descrizione di coloro che non osservano i precetti di Cristo (testo parziale)

Capitolo 28: Si continua lo stesso lamento di cui sopra (testo parziale)

Capitolo 29: Compunzione del cuore (testo parziale)

Capitolo 30: I due tipi di compunzione (testo parziale)

Capitolo 31: Riguardo alla riverenza ed alla persistenza nella preghiera (testo parziale)

Capitolo 32: Come si può pregare senza sosta

Capitolo 33: Tutti i pensieri vuoti sono illusioni operate dai demoni

Capitolo 34: Dio e gli angeli sono sempre presenti a coloro che cantano i salmi

Capitolo 35: La lode dei salmi e la disposizione delle ore alle quali dobbiamo cantare i salmi (testo parziale)

Capitolo 36: Se qualcuno deve osare di ricevere il corpo del Signore o cantare la messa ogni giorno (testo parziale)

Capitolo 37: Se qualcuno può o non può celebrare la messa dopo l'illusione che a volte accade nei sogni

Capitolo 38: Costanza nella lettura e nella preghiera (testo parziale)

Capitolo 39: Il lavoro manuale quotidiano dei solitari (testo parziale)

Capitolo 40: In certe ore i solitari devono essere occupati nel lavoro manuale

Capitolo 41: I solitari non devono avere nulla di proprio e devono accettare le offerte dei fedeli (testo parziale)

Capitolo 42: Le ore in cui i solitari devono prendere i loro pasti

Capitolo 43: La tavola dei solitari

Capitolo 44: Evitare l'eccesso di indulgenza

Capitolo 45: La quantità di bevanda dei solitari

Capitolo 46: Evitare l'ubriachezza: l'elogio della sobrietà

Capitolo 47: Se tutti devono ricevere in egual misura le necessità della vita (testo parziale)

Capitolo 48: Solitari malati e vecchi (testo parziale)

Capitolo 49: L'abbigliamento e le calzature dei solitari (testo parziale)

Capitolo 50: Il giaciglio dei solitari

Capitolo 51: Devono radersi in determinati momenti, in modo da non essere pelosi (testo parziale)

Capitolo 52: I discepoli dei solitari e la loro obbedienza (testo parziale)

Capitolo 53: Riguardo al buon zelo che i solitari devono avere verso i loro discepoli (testo parziale)

Capitolo 54: Come i solitari devono digiunare (testo parziale)

Capitolo 55: I solitari devono rompere il digiuno per il bene degli ospiti (testo parziale)

Capitolo 56: Carità (testo parziale)

Capitolo 57: Umiltà (testo parziale)

Capitolo 58: Obbedienza (testo parziale)

Capitolo 59: La virtù della pazienza (testo parziale)

Capitolo 60: Discrezione

Capitolo 61: Silenzio (testo parziale)

Capitolo 62: Evitare discorsi dannosi: due modi in cui qualcuno può parlare dei peccati di qualcun altro senza peccare

Capitolo 63: Consolazione dei solitari di fronte a discorsi malevoli

Capitolo 64: Pensieri e illusioni diaboliche

Capitolo 65: Le varie tentazioni dei solitari

Capitolo 66: Le tentazioni dei sogni

Capitolo 67: I solitari non devono cercare di compiere segni e miracoli (testo parziale)

Capitolo 68: La triplice grazia dei carismi

Capitolo 69: I solitari, dopo che sono stati rinchiusi, non devono mai tornare alla vita secolare: la perseveranza nelle opere buone


 

La Regola dei Solitari

Nel nome del Dio Altissimo

inizia il Prologo della Regola dei Solitari

 

Al mio carissimo padre in Cristo, che ha il mio stesso nome, a Grimlaico 1), il venerabile sacerdote, salvezza eterna nel Salvatore.

Ogni volta che vi rivelavo in privato ciò che mi dispiaceva di me, mi suggerivate molto spesso di mettere per iscritto una regola per i solitari, cioè i solitari cenobitici, e di impormi un giogo di servizio 2). Per molto tempo ho fatto di tutto per trattenermi dal farlo, poiché temevo che ciò potesse eccedere le mie possibilità e, soprattutto, che io potessi correre e cadere a capofitto nel peccato dell'orgoglio. Temevo sia che qualcuno potesse pensare che fossi così presuntuoso da fondare qualcosa di nuovo, sia che mi venisse rinfacciato contro l’antico proverbio: “A che serve buttare un pesce in mare o l'acqua in un fiume?”. Ma dopo molti giorni cominciai a ricordare che non era usanza dei nostri santi Padri provocarsi o invidiarsi a vicenda; piuttosto ciascuno di loro contribuì nell’organizzare la casa di Dio in base alle proprie capacità. E così ho scelto di obbedire al vostro comando piuttosto che fare la mia volontà. Di conseguenza mi misi presto a lavorare al compito assegnatomi ed, a tal fine, ho raccolto vari detti ed esempi dei tradizionali ortodossi e mi sono accontentato di modellare questa Regola basandomi su di loro. Per evitare che i capitoli risultino troppo lunghi, ho scritto i nomi di coloro i cui detti ho incluso in quest'opera a volte nel testo ed a volte nei margini. Sono stato molto attento a fare in questo modo per impedire alle persone di nominare il compilatore come fosse anche l’autore. Io so, infatti, come ha detto il Signore, che «Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria» [Gv 7,18]. Tuttavia, anche se le mie stesse parole sono trascurabili, ho avuto cura di segnarle con il mio solito nome tra i fiori dei detti dei santi. Per questo prego umilmente chiunque ritenga questa Regola degna di copia di non tralasciare di annotare i predetti nomi dei santi, come sono qui annotati. Non mi sono preoccupato di mantenere in questo piccolo lavoro pedanterie e modi di dire particolari della nostra lingua, e neanche i casi che si usano dopo le preposizioni, poiché credo che sarei molto colpevole se dovessi costringere le parole di Cristo o dei santi Padri alle regole del (grammatico) Donato 3).

Ciò che ho fatto, dunque, è stato estrarre questa regola dai fiori dei santi come dall’alveo dei fiumi e dalle profondità dell'oceano, e dividerli in piccoli ruscelli, cioè in sessantanove capitoli. Innanzitutto ho raccolto alcuni capitoli sulla rinuncia al mondo, sulla vita attiva e contemplativa. Poi su come deve essere stabilito lo stile di vita solitaria, ed in seguito da alcuni capitoli sulla vita e la condotta dei solitari. Tra questi ho inserito solo tre capitoli sui precetti del nostro Redentore, affinché i solitari meditino giorno e notte la legge del Signore, [cfr. Sal 1,2] pongano più e più volte i comandamenti di Cristo davanti agli occhi della mente e del corpo e così diventino più devoti e ferventi. Poi sono passato all’argomento della vita attiva ed ho stabilito che cosa e quanto consumare in cibo e bevande, quali vestiti e quale biancheria da letto si debbano avere o usare. Ho anche aggiunto il modo ed il tempo dei digiuni e dell'astinenza. In opportune posizioni ho anche associato alcune parole sulle virtù e sui vizi e, per mettere in guardia i solitari, mi sono premurato di indicare come devono agire nel fare miracoli. Per ultimo ho anche stabilito un solo capitolo sulla perseveranza nelle buone opere.

In tutti questi capitoli, quindi, ovunque fosse necessario spiegare alcune clausole, ho cercato di imitare il modo in cui agisce un fiume. Come un fiume che scorre nel suo letto, se si trova in contiguità con valli incavate sui suoi lati subito devia in esse il suo corso; quando le ha riempite, rifluisce prontamente nel suo letto. Allo stesso modo, ogni volta che ho trovato tra le sacre parole dei santi qualche passo oscuro [che prometteva di fornire] una conveniente edificazione, ho girato la mia corrente, per così dire, nella vicina valle della spiegazione; dopo aver esplorato a sufficienza quella valle di oscurità, sono tornato di corsa al letto del fiume del mio tema principale. Ho proceduto così, non perché fosse una mia idea o desiderio, ma perché i detti dei santi Padri lo esigevano.

Chiamo a testimoni sia voi, venerabile Padre, che mi avete spinto a compiere questa piccola opera, sia tutti coloro che forse potranno leggerla e, vi prego, se trovate qualcosa di sgradevole tra le cose qui esposte, allora, per favore, incolpate la mia rozzezza e siate così gentili da perdonarmi: ma quelle parole che avete approvato come conformi alla fede cattolica, siano attribuite a Dio che dà in abbondanza a tutti e non rimprovera. [Cfr. Gc 1,5]. Ma io, mentre cerco di adempiere al precetto di chi lo ordina, ho avuto la presunzione di impegnarmi in cose che sono troppo grandi per le mie capacità; forse che non era assolutamente necessario che obbedissi? Questa opportunità mi ha fornito una Regola che prima non avevo e che ho adesso. Inoltre, non mi sono preoccupato delle sottigliezze del modo di parlare erudito, poiché non posso mostrare nell’esprimermi ciò che non sono riuscito ad imparare dai miei maestri.

Tuttavia, ho terminato ciò che ho scritto facendo affidamento non sul mio talento ma sull'aiuto delle vostre preghiere. Per guarire quelli che ne fanno richiesta, i medici preparano un composto medicinale a partire da molti diversi tipi di preparati erboristici e non sono così presuntuosi da affermare di aver creato le erbe o altri tipi di piante, ma ammettono di essere semplici aiutanti che li raccolgono e li preparano. Questo è quello che io sono, non l'autore di questo lavoro, ma solo l'aiutante che lo ha raccolto. Dalla composizione di questi generi di piante si realizzerà la guarigione dei malati. Così, dunque, forse il lavoro al quale mi sono dedicato potrà, con l'aiuto di Dio, giovare alla vostra carità. Presumo che voi non mi avreste imposto con tanta insistenza di scrivere questa Regola se non l'apprezzaste e se voi stesso non aveste desiderato in qualche momento di intraprendere la vita solitaria. Come mi avete esortato a scrivere questa regola con affetto di amorosa devozione, così ora vi supplico umilmente di dedicarvi a leggerla attentamente e spesso, affinché la vostra anima si stanchi in qualche modo degli affanni esteriori, torni in se stessa e capisca su cosa debba il più possibile dedicarsi. In questa vita cos’è più penoso dell’essere turbati dai desideri terreni? O cos'è più sicuro del non desiderare nulla della vanità di questo mondo? Coloro che amano questo mondo sono angosciati dalle sue turbolente inquietudini e preoccupazioni. Ma coloro che si ritirano dal mondo e cercano la vita solitaria, cominciano ad avere in una certa misura, già in questa vita, il riposo di pace che sperano di avere nella vita a venire.

Per questo chiedo a voi, ed a tutti coloro che amano Dio, di non disprezzare questa Regola, né di spaventarsi e fuggire da questo insegnamento, perché non si può iniziare il cammino della salvezza in nessun altro modo che con un inizio ristretto. Come dice il Signore: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta» [Lc 13,24], ed anche: «Stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita; larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione» [Mt 7,14-13]. In queste disposizioni spero di non aver scritto nulla di duro o gravoso, nulla di oneroso; ma se, seguendo i dettami della sana ragione, ho stipulato qualcosa di alquanto rigoroso, l'ho fatto per correggere i vizi e preservare le virtù (Cfr. RB Prol. 46-48).

Perciò, chiunque voglia osservare questa Regola con buono spirito e completa devozione, anche mentre si trova ancora in questo mondo presente, può salire, con l'aiuto di Dio, alla vetta della virtù; e quando questa vita sarà finita, potrà gioire con i santi e gli eletti di Dio nel regno dei cieli e vivere con successo per sempre con il Signore stesso ed i suoi angeli; e non solo vivere, ma anche regnare con lui. Possa Dio onnipotente condurre rapidamente il vostro animo ad osservare questa regola e, osservandola, Egli possa condurvi ai regni celesti. Amen.

Finisce il Prologo.


 Note:

1) Brockie (L. Holstenius, M. Brockie, "Grimlaici presbyteri regula solitariorum" in Codex Regularum Monasticarum et Canonicarum, ed. Lucas Holstenius, vol. 1, Augsburg 1759) nota che Mabillon, nel suo Annalibus Benedictinis, cita un certo Grimlaicus vissuto intorno all'anno 900, stretto collaboratore di papa Formoso e degno vescovo. Mabillon suggerisce che quest'uomo potrebbe essere stato l'autore della regola o colui a cui era dedicata. Anche Mabillon pensa che Grimlaicus potrebbe essere originario di Reims, poiché la storia di quella città mostra un Grimlaicus, sacerdote, verso la fine del IX secolo. Come fa notare Gougaud, tuttavia, il nome era comune (L. Gougaud, OSB, “Étude sur la réclusion religieuse,” Revue Mabillon 8 - 1923).

2) "Giogo" (iugum) e "servizio, servitù" (servitus) sono spesso usati per riferirsi alla vita monastica ed alle obbligazioni che comporta (Si veda Regola Benedetto (RB) 58,16; 49,5; e 50,4).

3) La dichiarazione di Grimlaico sul suo stile rozzo rispecchia quello di Gregorio Magno alla fine della lettera dedicatoria ai suoi Moralia in Job, Patrologia Latina (PL) 75,516. Dichiarazioni simili si trovano in tutti i Padri Latini: Sant'Ambrogio, Expositio evangelica in Luc. (PL 15,1568); San Gerolimo, Translatio Homiliarum Origenis in Jer... (PL 25,585); Sant'Agostino, De Doctrina christiana (PL 34,68). (Si veda: "Grégoire le Grand, Morales su Job", Livres I e II, Sources Chrétiennes 1975)

Elio Donato (in latino: Aelius Donatus; ... – ...) è stato un grammatico romano del IV secolo ed ebbe tra i suoi allievi anche San Girolamo e Rufino. Sotto il nome di Donato sono giunte a noi opere grammaticali ed esegetiche.


 

Qui inizia il testo della Regola.

Capitolo 1: I tipi di solitari

Dobbiamo innanzitutto indicare perché qualcuno è chiamato “monaco” o “solitario”, e poi, con l'aiuto misericordioso di Dio, procedere a spiegare altre cose. La parola monaco [monachus] deriva dal greco e significa che una persona è solitaria [singularis]. Il termine greco monas equivale al latino singularitas. Quindi "solitario" equivale alla parola "monaco". Ecco perché, che si dica "monaco" o "solitario", è la stessa cosa.

Ma vediamo quanti tipi di solitari ci sono. Ci sono due tipi di solitari: l’uno è formato dagli anacoreti, cioè gli eremiti; l'altro è formato dai cenobiti, cioè quelli che vivono nei monasteri. Nessuno di questi generi di vita dei solitari deve essere intrapreso nel primo fervore di conversione, ma [gli aspiranti soltari] devono prima essere sottoposti ad una prova prolungata nell'osservanza del monastero (Cfr. RB 1,3), affinché, una volta provati, abbiano la forza di risalire, grazie alla misericordia del Signore, fino alla vetta della perfezione.

Inoltre, “molti si sono chiesti chi sia stato il primo monaco che ha cominciato a vivere nel deserto. Alcune persone risalgono a molto tempo indietro e dicono che si è iniziato con i beati Elia e Giovanni [il Battista]. Altri sostengono che il beato Antonio sia stato il primo a concepire questa intenzione. Ma Macario, il discepolo del beato Antonio, attesta che", ai tempi del Nuovo Testamento, "un certo Paolo di Tebe fu il primo ad adottare questo modo di vivere" (Gerolimo, Vita sancti Pauli primi eremitae, Prologo; PL 23,17—18); e questo è vero. Bisogna sapere, però, che fu dai tempi del beato Antonio che cominciarono ad esserci cenobiti solitari, cioè reclusi. Ma è difficile stabilire chi sia stato il primo recluso, poiché i reclusi vivevano non solo nei cenobi, ma anche nel deserto stesso. Infatti, nell'antichità, coloro che erano stati prima reclusi nei monasteri e che avevano imparato attraverso molte prove a combattere contro il diavolo, che erano stati ben istruiti e provati come l'oro nella fornace, uscivano dal campo della battaglia condotta con i loro fratelli per andare a combattere da soli; ormai sicuri, senza l'appoggio di altri, con la sola mano od il braccio, uscivano a lottare, con l'aiuto di Dio, contro i vizi della carne o dei pensieri (Cfr. RB 1,4-6).

Il beato vescovo Arnolfo 1) si attenne al loro esempio e, secondo il precetto del Signore, vendette tutto ciò che aveva e lo distribuì ai poveri. E non solo lasciò tutti i suoi beni terreni, ma rinunciò anche all'episcopato che, con la concessione del Signore, aveva assunto dopo aver perso ogni possesso temporale; da allora in poi cercò una cella in cui essere recluso; e lì per molti giorni si abbandonò al Signore per esercitarsi nelle devozioni divine. Infine, dopo aver così trascorso molti anni, prese le ali come una colomba, cioè le virtù spirituali, e volò nel deserto [Cfr. Sal 54,7]; e lì sperava in nostro Signore Gesù Cristo, che lo avrebbe salvato dalla timidezza di spirito e dalla tempesta. Il Signore venne e non solo lo salvò, ma lo trasportò nei cieli per incoronarlo felicemente.

Ho voluto qui includere l'esempio di un uomo così grande, affinché i solitari imparino da lui a disprezzare tutte le cose corruttibili ed a desiderare le cose celesti con tutte le forze.


Note:

1) Arnolfo, vescovo di Metz, morto nel 640. Una sua vita attribuita a Paolo Diacono si trova in PL 95,731-40, ed una versione curata da Krusch in MGH, Scriptores rerum Merovingicarum: Fredegarii et aliorum Chronica. Vita sanctorum, 426 ss.


 

Capitolo 2: I precetti più elevati riguardanti monaci o solitari

I precetti che vengono dati ai monaci ed a coloro che rinunciano a questo mondo sono più alti di quelli dati ai fedeli che conducono una vita ordinaria nel mondo. Ai monaci ed ai solitari si dice: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri [e avrai un tesoro nel cielo;] e vieni! Seguimi!” [Mt 19,21], ed anche: “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” [Mt 19,29]. Questi e simili precetti si applicano specialmente ai monaci che vivono soli ed ai solitari. E quanto più eccezionali sono i precetti, tanto più sono di maggior valore e preminenti. Mentre le parole che seguono sono, per così dire, precetti minori detti in termini generali a tutti. Il Signore dice: “Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me” [Mt 10,38]. E anche: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” [Mt 7,12]; “ma io vi dico di non opporvi al malvagio” [Mt 5,39]. Dice anche: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano” [Mt 5,44], e così via.

Ai monaci e ai solitari viene detto di abbandonare tutto ciò che appartiene loro; alle persone nel mondo viene detto di usare bene ciò che appartiene loro. I primi, vivendo bene, trascendono i precetti generali; questi ultimi sono vincolati ai [soli] precetti generali. Per raggiungere la perfezione non basta abbandonare ciò che si ha, a meno che non si rinneghi anche se stessi. Ma cosa significa “rinnegare se stessi”, se non rinunciare alle proprie volontà? (Cfr. RB Prol. 3) Come per esempio chi è orgoglioso diventi umile; chi è irascibile cerchi di diventare indulgente; chi è dissoluto diventi casto; chi è ubriacone diventi sobrio; chiunque è invidioso e perfido diventi gentile e premuroso. Perché chiunque, se rinuncia a tutto ciò che ha ma non rinuncia al suo modo di agire, non è certamente discepolo di Cristo. Colui, infatti, che rinuncia ai suoi beni, ripudia ciò che gli appartiene; chi ivece rinuncia ai suoi modi malvagio di agire, ripudia sé stesso. Per questo il Signore dice: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, ... e mi segua» [Lc 9,23].

 

Capitolo 3: I quattro ordini di persone che saranno nel giorno del giudizio

Occorre anche sapere che, nel giorno del giudizio, ci saranno quattro ordini di persone, due di persone buone e due di cattive. Il primo ordine, composto cioè coloro che lasciano tutto ciò che hanno per amore di Cristo, sarà salvato e non sarà giudicato e queste stesse persone verranno al giudizio come giudici insieme a Dio. Di questo parla Isaia: “Il Signore inizia il giudizio con gli anziani e i capi del suo popolo” [Is 3,14]. Queste persone giudicheranno gli altri e non saranno giudicate dagli altri.

Sarà giudicato e salvato il secondo ordine, cioè i buoni cristiani che possiedono cose di questo mondo e che ogni giorno le dispensano ai poveri, che vestono gli ignudi, visitano gli ammalati e adempiono a doveri simili a questi che Cristo ci insegna a fare [Cfr. Mt 25,31-46]. Queste persone saranno giudicate e saranno salvate; a loro il Signore dirà al giudizio: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare» [Mt 25,35], e poco oltre: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo» [Mt 25,34].

Sarà giudicato e condannato anche il terzo ordine, cioè i cattivi cristiani, che sembrano avere la fede ma non la mettono in opera. Queste persone saranno destinate al fianco sinistro nel giudizio, ed a loro il Signore stesso dirà: “Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere” [Mt 25,42], e poco oltre: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli” [Mt 25, 41]. Costoro saranno giudicati e non saranno salvati.

Il quarto ordine sarà quello dei miscredenti, che non saranno giudicati, ma saranno condannati. Di costoro il salmista dice: “Non si alzeranno i malvagi nel giudizio, né i peccatori nell’assemblea dei giusti” [Sal 1,5]. Gli empi risorgeranno, infatti, non per essere giudicati, ma per essere condannati; cioè coloro «che hanno peccato senza la Legge, senza la Legge periranno» [Rm 2,12].

Ma il primo ordine, le persone che hanno lasciato ciò che avevano e hanno seguito Cristo, giudicheranno i due ordini successivi, cioè vedranno i buoni cristiani ricevere cose buone e, viceversa, i cattivi cristiani ricevere cose cattive.

Con la più grande devozione, dunque, preghiamo Dio che tocchi i nostri cuori con la sua misericordia e ci faccia disprezzare tutte le cose visibili, affinché possiamo appartenere al primo ordine. Vivendo bene la nostra vita ci attribuiremo la grazia di questa grande ricompensa e, se custodiremo perfettamente la nostra vita, saremo giudici nel giorno del giudizio assieme a Dio ed ai suoi apostoli. Dobbiamo credere ciò con la massima fermezza, perché è fedelissimo Colui che ce l'ha promesso. Lui stesso è verità, non può ingannare. I solitari che, per amore di Cristo, lasciano tutto ciò che hanno, possono dire con l'apostolo Pietro: «Signore, ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo? " [Mt 19,27]. Dobbiamo sapere per certo che la risposta che ha dato a Pietro, la dà a tutti i solitari in Pietro.

Forse c’è qualcuno che dice: voglio imitare chi disprezza questo mondo, ma non ho niente da lasciare. Senza dubbio bisogna rispondere così: rinuncia a molto colui chi rinuncia alla volontà di avere. Dobbiamo anche notare che non si è limitato a dire: “Voi che avete lasciato tutto”, ma ha aggiunto “e mi avete seguito” [Mt 19,28], perché molte persone lasciano i loro beni ma non seguono Cristo; tali furono il filosofo Cratete  e molti altri 1): infatti, segue Cristo colui che lo imita.

Pensiamo dunque a cosa ha rinunciato Pietro che parlava con tanta sicurezza. Ha lasciato solo reti ed una barca, ma dice con sicurezza: "Abbiamo lasciato tutto". È come se dicesse: “Signore, abbiamo fatto ciò che hai comandato. Ora vogliamo sapere che tipo di ricompensa ci darai per averlo fatto". Ma Gesù risponde non solo a loro, ma anche ad altri dicendo: « In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele” [Mt 19,28]. Ci è stata promessa una grande felicità ed una gloria inesprimibile. Questa dichiarazione riguarda tutti coloro che rinunciano a tutto ciò che hanno per amore di Dio.

Tralasciamo tutte le cose visibili, disprezziamo tutte le cose transitorie, affinché con i beati apostoli meritiamo di godere della gloria della beatitudine eterna; e perché questo avvenga presto, imploriamo umilmente ogni giorno la compassione del Signore e diciamo: Dio onnipotente, che ci ha redenti per mezzo del sangue del tuo Figlio ed hai voluto rigenerarci dall'acqua e dallo Spirito Santo, facci passare presto da questo miserabile pellegrinaggio alla patria tanto a lungo desiderata, nella quale, con gli angeli benedetti e con quelle persone felicissime che hanno rinunciato al mondo, regneremo per secoli infiniti.


Note:

1) Cratete di Tebe (368/365-288/285 a.C.) è stato un filosofo della scuola cinica della fine del IV secolo a.C. Girolamo menziona Cratete in connessione con la domanda di Pietro («Signore, ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?") e la risposta di Cristo (“Voi che avete lasciato tutto”, ma ha aggiunto “e mi avete seguito”) nel suo Commentarium in Evangelium Matthaei, 3, su Matteo 19:27-28; PL 26:144.


 

Capitolo 4: Quali siano sono le vere ricchezze

Il beato Gregorio indica chiaramente cosa sono le vere ricchezze quando dice: "Sono vere solo quelle ricchezze che ci rendono ricchi nelle virtù" (Homeliae in evangelia XL). Il beato Prospero mostra chiaramente quali ricchezze dovremmo desiderare e quelle da cui dovremmo fuggire, quando dice:

Le ricchezze a cui ambire son quelle che possono adornarci e, insieme, renderci saldi; quelle che, senza volerlo, non possiamo né acquistare né perdere; quelle che ci rafforzano contro gli assalti del nemico, (ci) separano dal mondo, (ci) pongono sotto la protezione di Dio, arricchiscono e nobilitano la nostra anima, sono con noi, sono dentro di noi.

Quali ricchezze bisogna stimare come nostre? Il pudore, che ci (rende) modesti; la giustizia, che (rende) giusti; la devozione, che (rende) pii; l’umiltà, che (ci fa) umili; la mitezza, che (ci fa) mansueti; l’innocenza, che (ci fa) irreprensibili; la purezza, che (rende) mondi; la prudenza, che (rende) accorti; la temperanza, che (rende) misurati; e la carità, che ci fa essere graditi a Dio e agli uomini, capaci di realizzare le virtù, dispregiatori del secolo e fautori d'ogni bene.

Son queste le sante virtù che non appartengono a tutti, ma (solamente) ai santi; fortune non già dei ricchi superbi, ma degli umili poveri; patrimonio dei cuori, ricchezza incorruttibile dei (buoni) costumi, posseduta in abbondanza solo da chi rinunzia di cuore ai beni carnali. Benché questi, infatti, siano anch’essi validi, in quanto creati da Dio, tuttavia, essendo comuni ai probi e agl’iniqui, gli uomini spirituali devono mirare a disprezzarli, per poter raggiungere quelli incomparabilmente migliori, che sono propri di tutti i buoni. Un bene posseduto anche dai cattivi, infatti, non somiglia a quello che detengono solamente i buoni.

 Quando il bene materiale lo posseggono gl’iniqui, esso è appunto il loro premio; (invece) allorché ad averlo sono i giusti, non si tratta del loro premio, ma di un (semplice) sollievo temporale. Parimenti, la perdita del bene temporale è una prova per il giusto, e per l’ingiusto un tormento. Mentre il giusto, infatti, preso dal desiderio delle cose celesti, sia che possieda sia che perda tutti i beni temporali, non ne risente affatto; l’iniquo, viceversa, possedendo con piacere, non perde senza dolore.

Per questo, dunque, chi serve Dio deve fuggire con tutto il cuore le ricchezze, dal momento che quelli che le desiderano non le cercano senza travaglio, non le trovano senza difficoltà, non le conservano senza preoccupazione, non le possiedono senza piacere misto ad ansietà, non le perdono senza sofferenza. Dice invece l'Apostolo a quelli che servono Cristo: “Vorrei che foste senza preoccupazioni” (1 Cor 7,32); e: “Radice di tutti i mali è l'attaccamento al denaro; per il suo sfrenato desiderio alcuni deviarono dalla fede e si tormentarono con molti dolori" (1 Tm 6,10). E cosi questa ricchezza terrena, per chi l’ami in modo insano, è fonte non già di godimenti ma di pene. (Estratto da “Giuliano Pomerio, La vita contemplativa”, Cap. XIII, 2-3, a cura di M. Spinelli, Città Nuova Editrice 1987)

 Bastino queste parole sulla vera e falsa ricchezza. Ascoltiamo ora come si può ascendere alla vetta della perfezione.

 

Capitolo 5: La perfezione della giustizia

Se qualcuno vuole essere perfetto, prenda la nostra croce, segua il Signore Salvatore ed imiti Pietro che disse: “Signore, ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito” [Mt 19,27]; faccia ciò che il Signore ha comandato al giovane e ciò gli basterà per renderlo perfetto, cioè: “Va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri ...; e vieni! Seguimi!” [Mt 19,21]. Voler essere perfetti e non volerlo, sono entrambi in nostro potere. Il Signore non ci impone ilo giogo della costrizione, ma ci permette di usare il nostro libero arbitrio, come dice: “Vuoi essere perfetto” e stare fermo al primo posto della dignità? “Vendi quello che possiedi, dallo ai poveri…; e vieni! Seguimi!” [Mt 19,21]. Se dunque vuoi essere perfetto, vendi tutto quello che hai, e non solo una parte, come fecero Anania e Saffira [Cfr. At 5,1-11], ma vendi proprio tutto; e quando lo avrai venduto, non sottrarre nulla, ma dona l'intera somma ai poveri; è così che ti procurerai un tesoro per il regno dei cieli.

Ma solo questo non è sufficiente per raggiungere la perfezione, a meno che, dopo aver disprezzato le ricchezze, non si segua il Salvatore, abbandonando le cattive azioni e facendone di buone. Come dice san Girolamo [Commentarium in Evangelium Matthaei 3.19] : “È più facile disprezzare un borsellino che la volontà ed il piacere. Molti lasciano le ricchezze, ma non seguono il Signore. Segue, infatti, il Signore chi lo imita e procede sulle sue orme. “Chi dice di rimanere in Cristo, deve anch’egli comportarsi come lui si è comportato” [1 Gv 2,6].

Quindi è bene che il servo di Dio sia fisicamente lontano dal mondo, ma è molto meglio [che sia lontano] dalla volontà. [Essere lontani da] entrambe è cosa ottima e perfetta. Quindi è perfetto colui che è separato dal mondo sia nel corpo che nel cuore. Colui che ha disprezzato questo mondo brillerà di grande grazia dinanzi a Dio. Tutto in questo mondo è destinato ad essere nemico dei servi di Dio, così che, quando percepiscono che queste cose sono loro contrarie, si infiammino di un celeste desiderio più ardente. In questa vita cos’è più penoso dell’essere turbati dai desideri terreni? O cos'è più sicuro del non desiderare nulla della vanità di questo mondo? Coloro che amano questo mondo sono angosciati dalle sue turbolente inquietudini e preoccupazioni. Ma coloro che si ritirano dal mondo e cercano la vita solitaria, cominciano ad avere in una certa misura, già in questa vita, il riposo di pace che sperano di avere nella vita a venire.

 

Capitolo 6: Coloro che rinunciano al mondo non devono possedere né eredità né proprietà

 Coloro che abbandonano completamente il mondo non devono possedere altro che il Signore. Ecco perché leggiamo nel libro di Prospero:

Di conseguenza, chi è attratto dall’ambizione di possedere, possieda con animo libero Dio, ch’è Signore di tutto quello che creò, e avrà in Lui qualsiasi cosa desideri possedere santamente. Però, siccome nessuno possiede Dio, a meno che non sia posseduto (egli stesso) da Dio, sia dapprima lui medesimo possesso di Dio, e Dio diventerà suo padrone e (nel contempo) suo bene. E chi più felice di colui per il quale il Creatore diviene sua ricchezza e la Divinità stessa si degna d’esser sua eredità? Basta solo ch’egli lo serva con le opere buone, e ne raccoglierà tutti i frutti, vivendo incessantemente in Lui e di Lui, e niente possedendo di terreno insieme con Lui. Infatti il Creatore dell'universo, a cui nulla di ciò ch’Egli fece può esser paragonato, non ammette che lo si possegga assieme alle cose che creò.E in fin dei conti, cos'altro cerca colui per il quale il suo Creatore è tutto? Lui (appunto) possedeva — e ne era posseduto — chi nello Spirito diceva: “Il mio bene, Signore, dissi, è osservare la tua legge” [Sal 118(119),57]; e: “Il Signore è parte della mia eredità e del mio calice” [Sal 15(16),5].

 (Estratto da “Giuliano Pomerio, La vita contemplativa”, Cap. XVI, 2, a cura di M. Spinelli, Città Nuova Editrice 1987)

 

Se possiedi il Signore e dici con il profeta: "Mia parte è il Signore" [Lam 3,24], non puoi avere altro che il Signore. Se tu avessi qualcosa oltre al Signore, allora il Signore non sarebbe la tua parte. Se, per esempio, [tu avessi] oro o argento o vari beni o suppellettili, il Signore non accetterebbe di essere la tua parte insieme a queste parti.

Come dice Girolamo [Epistola 52,5] “Se, dunque, io sono “porzione del Signore e sua parte di eredità” [Dt 32:9], non accetterò una parte insieme alle altre tribù ma, come un levita ed un sacerdote, vivrò di decime; servirò l'altare e mi sosterrò con le offerte fatte sull'altare: di là avrò cibo e vesti, di queste mi accontenterò e, nudo, seguirò la nuda croce».

Fu detto anche ad Ezechiele: I miei sacerdoti, che mi servono nel mio tempio, non abbiano possedimenti: perciò il Signore sarà il loro possesso; né avranno un'eredità; “Io, il Signore, sarò la loro eredità” [Ez 44,28]. E il Signore stesso dice altrove ai figli di Levi: “Non ci sarà parte per te in mezzo ai tuoi fratelli. Io sono la tua parte [in mezzo a loro]”. [Nm 18,20]. Bastano queste parole per chiarire che coloro che disprezzano la porzione di un'eredità terrena devono mostrare di possedere il Signore e che sono posseduti dal Signore.

Su questo stesso argomento, un esempio è dato nelle conferenze dei Padri.

 

“Un fratello che aveva rinunciato al mondo e dato ai poveri i suoi beni, ma si era tenuto qualcosa per sé, fece visita al padre Antonio. Il padre, sapendo il fatto, gli dice: «Se vuoi farti monaco, va’ al tuo paese, compera della carne, legala attorno al corpo nudo e vieni qui». Così fece il fratello; e i cani e gli uccelli gli dilaniarono tutto il corpo. Quando fu giunto dal padre, questi gli chiese se avesse fatto secondo il suo consiglio: egli mostrò il suo corpo pieno di ferite. Sant’Antonio allora gli dice: «Quelli che rinunciano al mondo e vogliono tenersi dei beni, vengono in tal modo fatti a brani lottando contro i demoni»”. (Estratto da “Vita e detti dei Padri del deserto, Antonio 20”, a cura di L. Mortari, Città Nuova 1997)

 

Questo detto deve bastare a proposito del non avere possedimenti.

Racconteremo un altro detto sul non avere un'eredità.

“[Il padre Daniele raccontò che una volta] venne dal padre Arsenio un funzionario di nome Magistratus a portargli il testamento di un senatore suo parente che gli aveva lasciato un’eredità molto cospicua. Preso il testamento, Arsenio stava per strapparlo, quando il funzionario cadde ai suoi piedi dicendo: “Non strapparlo, ti supplico, mi costerebbe la testa!”. E il padre Arsenio gli disse: “Io sono morto prima di lui e lui è morto appena ora, come può farmi suo erede?”. E mandò indietro il testamento senza accettare nulla”. (Estratto da “Vita e detti dei Padri del deserto, Arsenio 29”, a cura di L. Mortari, Città Nuova 1997)

 

Da questo esempio dobbiamo capire che coloro che lasciano il mondo non devono avere altro che il cibo e non devono possedere altro che i vestiti. Specialmente il solitario, che desidera imitare gli apostoli, deve accontentarsi solo di queste cose. Poiché non si può servire contemporaneamente Dio ed il mondo e per questo motivo Dio vuole che coloro che lo adorano rinuncino a tutto, affinché, dopo aver respinto il desiderio del mondo, l'amore di Dio possa crescere e diventare perfetto in loro.

 

Capitolo 7: Dopo aver rinunciato al mondo, una persona non deve accumulare ricchezze

Una volta che i solitari hanno rinunciato completamente al mondo, dovrebbero essere così morti per il mondo che si divertono a vivere solo per Dio. Quanto più si ritrarranno dal desiderio di possedere questo mondo, tanto più contempleranno con attenzione interiore la presenza di Dio e dei suoi santi. Ci sono molti, tuttavia, che vorrebbero accorrere alla grazia di Dio, ma che hanno paura di rinunciare ai piaceri mondani. L'amore di Cristo li richiama, ma il desiderio del mondo li richiama. Leggiamo nelle conferenze dei padri cosa faceva un certo solitario,

“che lavorava diligentemente nel suo orto, dava in elemosina tutto ciò che il suo lavoro produceva e teneva per sé solo ciò di cui aveva bisogno per il proprio cibo. Più tardi, però, Satana gli mise nel cuore questo pensiero: Risparmia un po' di soldi, così che, quando sarai vecchio o ti ammalerai, non avrai bisogno di nulla. E mise da parte e riempì un vaso di monete. Ora avvenne che si ammalò ed uno dei suoi piedi cominciò a suppurare. Spese quello che aveva raccolto per i medici, ma non gli servì a niente. Alla fine uno degli esperti medici venne a salutarlo e gli disse: “Se il tuo piede non viene amputato, tutto il tuo corpo andrà in putrefazione. Così decisero di amputargli il piede il giorno successivo. Ma quella notte tornò in sé, si pentì di ciò che aveva fatto, gemette e pianse, dicendo: “Ricorda, o Signore, le opere che facevo quando lavoravo nel mio giardino e con il ricavato aiutavo i poveri”. E mentre piangeva, l'angelo del Signore si mise accanto a lui e gli disse: “Dove sono le monete che hai raccolto, e dov'è la speranza che ti ha spinto ad agire così?” Ma lui rispose: “Signore, ho peccato, perdonami; non farò più così”. Allora l'angelo gli toccò il piede, subito fu guarito ed al mattino si alzò ed andò a lavorare nel campo. Il dottore venne con i suoi strumenti per amputargli il piede e disse: “Dov'è quel malato?” Gli dissero: “Stamattina è uscito per lavorare nei campi”. Il dottore rimase stupito, uscì, lo vide scavare il terreno e glorificò Dio che gli aveva ridato la salute.

Bastano queste parole per mostrare quanto sia malvagio risparmiare denaro dopo aver rinunciato al mondo e trattenerlo avidamente. Per questo sta scritto: “Nessuno che mette mano all'aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio” [Lc 9,62].

Io stesso conoscevo un certo fratello, e come vorrei non conoscerlo! Potrei dire il suo nome, se servisse a qualcosa: col pretesto della religione finse di lasciare il mondo ed arrivò al punto di condurre una vita solitaria, non nel cuore, ma solo nel corpo. Non solo non distribuì tutti i beni e le ricchezze che aveva un tempo, ma conservava avidamente anche ciò che gli veniva offerto dai fedeli. In seguito il diavolo gli mise in cuore di uscire dalla cella in cui era stato recluso per poter utilizzare le ricchezze che aveva perfidamente accumulato. Ed è quello che fece; finché visse nel mondo attuale, è stato motivo di scandalo, non solo per sé stesso, ma per tutti noi; e non solo il suo esempio nocque allora, ma danneggia ancora coloro che lo hanno conosciuto e nuocerà coloro che verranno a sapere di lui. Perché ci sono alcuni che hanno disprezzato i desideri della carne e hanno lottato per lasciare tutto ma, quando vedono che quell'uomo ha iniziato l'opera e poi è caduto, hanno paura di fare ciò che avevano deciso. Eppure anche queste persone sono da biasimare: se hanno paura di imitare i malvagi nella loro malvagità, perché sono pigri nell’imitare i buoni nella loro bontà? Per questo sta scritto: “Prendiamo esempio da quelli che sono buoni” (Girolamo, Commento al vangelo di Matteo 4.23). Il motivo per cui si scrive della rovina e della perdizione degli altri è affinché siamo più solleciti per la nostra vita.

Penso che finora si sia stato detto abbastanza sulla rinuncia al mondo e sul non accumulare ricchezza. I prossimi capitoli, con l'aiuto di Dio e l'assistenza del beato Prospero, saranno ora dedicati alla vita contemplativa.

 

Capitolo 8: Ciò che è proprio della vita attiva, e ciò che è proprio della vita contemplativa

Poiché si arriva alla vita contemplativa attraverso l'attiva, ritengo che si debba prima parlare di ciò che è proprio della vita attiva. Così possiamo poi passare alla vita contemplativa.

La vita attiva è un modo di vivere religioso [Latino: Conversatio religiosa] che insegna in quale modo i superiori debbano guidare ed amare coloro che sono stati loro affidati; e poiché si preoccupano della salvezza dei loro subordinati non meno che della propria [Cfr. RB 2.39-40], provvedano con cure paterne a ciò che sanno essere loro utile. La vita attiva insegna anche come coloro che sono soggetti ad un superiore devono con il più grande amore attenersi agli ordini del superiore, come se fossero un comando di Dio, così come le membra (del corpo) servono fedelmente il capo.

La vita che viviamo in questo mondo (Latino: vita actualis) distribuisce il pane agli affamati, ammaestra gli ignoranti con la parola di saggezza, corregge gli erranti, richiama i superbi sulla via dell'umiltà, si prende cura dei malati; dispensa a ciascuno ed a tutti ciò di cui hanno bisogno e provvede con sollecitudine il necessario per la sussistenza a coloro che sono affidati alle sue cure. Queste cose esistono con il corpo in questo tempo presente e passeranno con il corpo, ma tuttavia il merito guadagnato in questa vita rimarrà per l'eternità.

La vita contemplativa consiste anche nell’attenersi con tutta la mente all'amore di Dio e del prossimo, nel disprezzare tutte le cose passeggere, nel lasciarsi alle spalle le cose visibili e desiderare solo le cose celesti. La vita contemplativa deriva il suo nome dal contemplare, cioè dal vedere; nella vita contemplativa, una creatura dotata di intelletto e giustificata da ogni peccato, vedrà il suo Creatore. Ma se ci sforziamo a riflettere attentamente su di essa allora, anche in questa fragile tenda dove piangiamo quotidianamente, possiamo diventare in qualche modo partecipi della vita contemplativa.

Poiché, secondo l’opinione di alcuni, la vita contemplativa non è altro che conoscenza delle cose nascoste e future, oppure libertà da tutte le occupazioni mondane, o studio delle Sacre Scritture. Invece, quando visitiamo i malati, seppelliamo i morti, correggiamo chi sbaglia, allora siamo nella vita attiva. Ma quando versiamo lacrime davanti a Dio e contempliamo quanto sia grande la beatitudine, la luce e la gloria dei santi in cielo, allora siamo nella vita contemplativa. Mentre la vita attiva inizia con il corpo e finisce quaggiù con esso, la vita contemplativa comincia qui e raggiunge il compimento nell'età a venire. Di queste due vite, l'attiva è espressa da Marta e la contemplativa da Maria; ma senza dubbio Marta è necessaria a Maria.

Capitolo 9: Come deve vivere nella vita attiva colui che si sforza di elevarsi alla vita contemplativa

Chi sta cercando di elevarsi al culmine della vita contemplativa, deve prima mettersi alla prova attraverso molte esperienze nella vita attiva: se può tollerare ingiurie, se riesce a sopportare abusi, calunnie, scherni, oltraggi e percosse. Se può sopportare pazientemente queste e cose simili, siano esse inflitte dal diavolo o da un'altra persona, allora un giorno costui sarà in grado di volare fino alla vita contemplativa. Nella vita attiva tutti i vizi vanno eliminati con la pratica delle opere buone, affinché nella vita contemplativa si possa giungere a contemplare Dio col puro sguardo dello spirito.

Può succedere che qualcuno, appena entrato nella vita religiosa, possa desiderare di elevarsi subito alla contemplazione, tuttavia costui deve tuttavia essere costretto con ragione a concentrarsi prima sull'esercizio della vita attiva, perché chi prima fa progressi nella vita attiva, poi si eleverà felicemente alla contemplazione. Merita, infatti, di essere innalzato a questa vita colui che ha vissuto in modo valido la prima. Pertanto, coloro che aspirano ancora alla gloria temporale o alla concupiscenza carnale devono essere tenuti lontani dalla contemplazione della quiete, per poter essere invece purificati dal compimento di azioni tipiche della vita di questo mondo (Latino: “actualis vitae”).

Dobbiamo sapere perché dei santi uomini sono usciti dal ritiro nascosto della contemplazione (per dedicarsi) ad attività pubbliche, ma poi sono tornati indietro dall’evidente realtà dell'azione al luogo segreto dell’intima contemplazione. Nella vita attiva l'intento avanza con insistenza, invece nella vita contemplativa a intervalli si ricomincia, perché la durevolezza della contemplazione affatica. Come, infatti, è tipico dell'aquila fissare sempre l'occhio sul raggio del sole e non distogliere lo sguardo, se non per procurarsi del cibo; così anche i santi talvolta ripiegano dalla contemplazione per rivolgersi alla vita presente, giudicando che la contemplazione sia certamente di massima utilità, ma che le nostre necessità hanno ancora un po' bisogno di cose umili.

La visione nella profezia di Ezechiele delle creature viventi che si muovevano ma non si voltavano indietro (Cfr. Ez 1,12) si applica alla perseveranza nella vita attiva. Allo stesso modo quelle creature viventi che si muovevano e si voltavano indietro si riferiscono alla moderazione nella vita contemplativa; chiunque si concentri sulla contemplazione torna indietro respinto dalla sua debolezza ma, con rinnovata determinazione, viene nuovamente elevato alle cose da cui era disceso.

Abbiamo detto queste cose come premessa, affinché coloro che vogliono vivere perfettamente nella vita contemplativa, non manchino di lavorare con le proprie mani ad intervalli prestabiliti per provvedere al proprio sostentamento. Tuttavia, devono stare attenti a non cercare di guadagnarsi da vivere con transazioni disoneste, perché sta scritto: «Nessuno, quando presta servizio militare a Dio, si lascia prendere dalle faccende della vita comune, se vuol piacere a colui che lo ha arruolato» [2 Tm 2,4].

 

Capitolo 10: Quanto differisce la vita contemplativa dall’attiva

È giunto il momento di trattare in breve della differenza tra la vita contemplativa e quella attiva. Ora, per far sì che la cosa risulti chiara, dopo aver sottolineato le rispettive caratteristiche, confrontiamo l’una dopo l’altra le vite in questione, cioè la contemplativa e l’attiva.

Alla vita attiva inerisce far progressi al livello umano, moderando con il governo della ragione gl’indocili impulsi del corpo; la contemplativa (deve invece) trascendere la dimensione umana con l’anelito alla perfezione, dedicandosi continuamente all’incremento delle virtù.

Con la (vita) attiva si progredisce, con la contemplativa s’attinge la sommità. La prima fa l’uomo santo, la seconda perfetto. È proprio dell’una non pronunziare offese assolutamente contro nessuno; dell’altra, sopportare con pazienza quelle rivolte contro (di sé). Anzi, per meglio dire, chi persegue la (vita) attiva, cerca di perdonare chiunque commetta peccato contro di lui; il fautore della contemplativa è pronto piuttosto ad ignorare che a perdonare le offese da cui è colpito, senz’esserne minimamente turbato. Questi reprime la collera con la virtù della pazienza, ponendo il freno della temperanza all’eccesso delle passioni; subisce la tentazione dei desideri carnali, ma non la asseconda; è turbato dalla cupidigia di questo mondo, senza lasciarsene trascinare; l’assalto del diavolo lo scuote, ma non lo vince: sottomesso con animo devoto al proprio Dio, egli non esce indebolito, bensì temprato dalla molteplicità delle tentazioni. Con le sante virtù ha la meglio su tutte le inquietudini che rendono incostante la vita dei mortali e, libero da ogni passione e turbamento, gode della tranquillità beata, innalzandosi all’ineffabile gioia della contemplazione divina.

Accogliendo il pellegrino, vestendo l’ignudo, guidando colui ch’è sottomesso, liberando il prigioniero, proteggendo chi è vittima della violenza, costui si purifica di tutte le sue colpe e, al tempo stesso, arricchisce la sua vita con i frutti delle opere buone. Qualora abbia ceduto i propri beni per le necessità dei poveri, non solo s’è spogliato del mondo, ma s’è avvicinato con tutte le forze al cielo, gettando al mondo le cose del mondo e restituendo se stesso, con animo devoto, al Cristo. E da Lui implora gli sian date le ricchezze immortali, in quanto povero; reclama ogni giorno d’esser protetto, in quanto infermo; brama d’esser rivestito con l’abito d’immortalità, in quanto nudo; supplica d’esser difeso dall'assalto dei nemici invisibili, perché oppresso dalla fragilità della carne e, come pellegrino, aspira al dono della patria celeste.

La vita attiva è caratterizzata da una durata breve, la contemplativa dalla gioia eterna. Nella prima si guadagna il regno, nella seconda (lo) si ottiene. L’una fa bussare alla porta — per dir così — come con le mani delle opere buone, l’altra ammette in patria chi ha conseguito la perfezione. In questa si disprezza il mondo, in quella si contemplerà Dio. E, tralasciando molti aspetti che non posso menzionare, coloro i quali in questa vita si sian dimostrati più forti degli spiriti immondi, in quella contemplativa — ch'è sommamente beata — saranno ricompensati da Dio e diventeranno come gli angeli santi, regnando felici con Lui per sempre nella città celeste.

(Tutto il capitolo 10 corrisponde al capitolo XII della “Vita contemplativa” di Giuliano Pomerio (n. 450 circa - m.500 circa). Testo estratto dall’edizione curata da Mario Spinelli, Città Nuova 1987)

Capitolo 11: Perché coloro i quali disprezzano le realtà presenti godono anche qui della beatitudine della vita contemplativa

All’acquisto di tale felicità anela chi rinunzia a tutte le realtà presenti per la contemplazione delle future e s’eleva dalle occupazioni quotidiane — che talora impediscono i progressi di chi aspira a vivere santamente — alle vette di questa divina contemplazione, trionfando persino sui desideri della propria carne. E disprezzando tutto quanto rimane al di sotto di lui, e che di solito trascina giù verso le cose terrene (anche) le anime sicure circa la santità della vita passata, questi s’accosta ai beni celesti, tanto più prossimo alle realtà divine quanto più sale al di sopra di tutte le umane con il perseguimento della perfezione. Ciò nella consapevolezza che, se qui la vita contemplativa sarà anteposta con piena volontà alla precarietà degli onori, all’ansia delle ricchezze e alla caducità dei piaceri, si scopriranno gli onori autentici, le ricchezze solide e i piaceri eterni, dopo aver raggiunto la perfezione della virtù contemplativa, in quella vita beata che sarà il frutto della ricompensa di Dio.

E in realtà, quale onore più grande dell’esser beatificati dalla divina clemenza con una dignità pari agli angeli? Quale patrimonio più cospicuo che ritrovarsi ricchi oltre ogni dire per merito della sovrabbondante beatitudine del regno celeste? O esiste forse qui un godimento maggiore della contemplazione divina, capace d’infondere, a chi la persegua con sincerità d’intenti, l’inesauribile dolcezza del premio futuro? La vita contemplativa, infatti, allieta anche quaggiù coloro che l’hanno in pregio con la meditazione dei beni futuri [cfr. Eb 9,11] e, per quanto è possibile in questa vita, essa illumina con il dono della sapienza spirituale quelli che si dedicano ad essa con tutta la tensione dello spirito; e mediante lo stimolo a conseguire in qualche modo la vera e propria perfezione, essa accende il desiderio di quella pienezza della visione divina, la cui speranza è coltivata da quanti son rivolti ai desideri celesti. Cosi, ciò che adesso essi scorgono in maniera indefinita e non distinguono compiutamente, lo vedranno rivelarsi quando sarà giunto il momento [Cfr. 1 Cor 13,12].

(Tutto il capitolo 11 corrisponde al capitolo V della “Vita contemplativa” di Giuliano Pomerio (n. 450 circa - m.500 circa). Testo estratto dall’edizione curata da Mario Spinelli, Città Nuova 1987)

Capitolo 12: Qual è e quant’è grande in questa vita la perfezione della vita contemplativa

Chi mira alla vita contemplativa s’accosti di cuore al proprio Creatore per averne luce, lo serva con scrupolo, contemplandolo e godendone instancabilmente; arda di desiderio per Lui, fugga per amor suo tutto quanto possa distoglierlo da Lui, faccia dipendere tutti i propri pensieri e ogni speranza dall’amore verso di Lui, si dedichi alla sacra meditazione della Scrittura divina e, illuminato dalla grazia di Dio, vi s’immerga fino a dimenticare se stesso, riflettendosi in essa come in uno specchio sfolgorante.

Se scoprirà in sé qualcosa di malvagio, lo corregga; quel che c'è di buono, lo conservi; ciò ch’è brutto, lo migliori; ciò ch'è bello, lo rifinisca; quanto v’è di sano, lo preservi; quello ch’è malato, lo rinvigorisca con l’assiduità della lettura sacra. Legga instancabilmente i precetti del suo Signore, (li) ami con perseveranza, (li) adempia in maniera efficace e, istruito da essi quant’occorre, riconosca cosa debba evitare e cosa (invece) perseguire.

Indaghi con costanza nei misteri delle divine Scritture, discerna il Cristo colà promesso, sappia vedere quand’è prefigurato, intenda le profezie sulla perdizione del popolo ostinato e ne compianga il compimento, si rallegri per la salvezza dei gentili, tra gli avvenimenti trascorsi tenga a mente quelli che — predetti — si verificarono, e creda alle promesse future. Ben lontano dallo strepito degli affari del mondo, cerchi di scoprire con fervore ciò che possa accendere il suo animo col desiderio della ricompensa futura, attenda agli esercizi spirituali per migliorare di giorno in giorno, coltivi il santo riposo per lasciar lavorare l’anima, stimi il mondo morto per sé e si mostri crocifisso di fronte alle seducenti lusinghe del secolo.

Al piacere degli spettacoli mondani, questi dovrà preferire — senza tema di confronto — la vista del suo Creatore, sempre accostandosi ed elevandosi progressivamente all’apice della divina contemplazione e senza mai distrarsi, neppure per un momento, dalla considerazione delle promesse future, per guardare alle cose terrene.

Dirigerà l’acutezza della mente laddove si proporrà d’arrivare, raffigurandosi davanti agli occhi, e amando, la beatitudine della vita futura. Non temerà alcunché di terreno, né (lo) desidererà, per evitare che, da un lato, la paura di perdere un bene materiale o, dall’altro, la smania d’ottenerlo non infrangano la tensione dello spirito.

I casi spiacevoli non lo vizino né le contrarietà lo mettano in agitazione. Il giudizio favorevole non lo renda superbo, quello contrario non lo deprima, e la falsa accusa o l'elogio non accrescano né diminuiscano le sue gioie; non si rallegri in alcun modo delle cose del mondo, e neppure vi pianga sopra. Imperturbabile fra i piaceri e i dolori, il suo carattere costante mantenga il medesimo atteggiamento e qualsiasi cosa il mondo possa promettere o minacciare, la stabile fermezza del suo cuore non se ne lasci scuotere, ma perseverando sempre tal e quale e coerente con se stesso, egli non tenga in conto né i danni né i vantaggi di questo mondo.

E anche dopo aver realizzato, mosso dall’aspirazione alla vita contemplativa, queste condizioni e (altre) simili ad esse, sia fermamente persuaso di non esser perfetto già qui sotto ogni profilo, ma di dover raggiungere la perfezione nella vita beata che verrà. Si protenda quindi verso di essa, dove potrà vedere faccia a faccia l'essenza di Dio.

In questo mondo chiunque appartenga a coloro i quali vivono con rettitudine è definito giusto, dal momento che osserva giusti precetti; chi è perfetto, peraltro, va al di là dei precetti (stessi). Ma se costui si paragona con i perfetti in assoluto, come saranno (cioè) nella vita beata, (allora) non risulta — per dir così — perfettamente perfetto. Gli è stata si rimessa ogni iniquità, ma non è stata ancora risanata: è stata guarita, viceversa, (solo) la sua infermità; egli non commette peccato, certo, e in ciò è davvero perfetto, tuttavia conserva la capacità di peccare poiché la sua guarigione non ha comportato la totale estinzione del male. Di conseguenza (solamente) quando, purificato d’ogni colpa, non potrà (più) peccare, allora sarà perfetto.

Quaggiù, inoltre, per quanto notevole sia la grandezza della santità in cui uno possa segnalarsi, per quanto alto il livello della perfezione nella quale possa eccellere, questi può senz'altro esser stimato perfetto (solo) in base alla misura di questa vita; però non è così sicuro della propria perfezione da non dover preoccuparsi di cadere: ora, dove c'è una preoccupazione, la beatitudine non è evidentemente assoluta. Né questa va ritenuta in alcun modo perfetta, finché non sia diventata sicura; e sicura non sarà, prima che la sicurezza eterna non abbia cancellato ogni preoccupazione.

Perciò chi è detto beato in questa vita, è beato nella speranza della beatitudine futura; è proprio per questo, d'altronde, ch’egli non sarà beato qui, ma nell’altra vita, dove regnerà la perfetta beatitudine di tutti i santi e la natura umana, pienamente beatificata, contemplerà la sua gloria e (quella) del suo Creatore, aderendo a Lui senza che la propria felicità venga mai meno.

(Tutto il capitolo 12 corrisponde ai capitoli VIII e IX della “Vita contemplativa” di Giuliano Pomerio (n. 450 circa - m.500 circa). Testo estratto dall’edizione curata da Mario Spinelli, Città Nuova 1987)

 

Capitolo 13: Perché i santi non possono vedere pienamente Dio, prima d’essere entrati nella beatitudine della vita futura

Tutti quelli che (ne) hanno veramente mostrato il proposito e — con l'aiuto di Dio — la capacità, vanno quindi esortati alla vita contemplativa, senza che (però) dimentichino come la perfezione della contemplazione divina sia riservata nella vita beata che verrà: è allora che vedranno Dio così com'è, quando essi pure saran perfetti avendo acquistato la vita eterna e il regno celeste.

Del resto, se la fragilità umana avesse potuto contemplare quaggiù l’essenza di Dio nella sua pienezza, giammai il santo Evangelista avrebbe detto: Nessuno mai vide Dio [Gv 1,18].

Dopotutto, per dimostrare chiaramente che la visione di Dio non fu negata agli uomini santi, bensì (solo) differita, (il Signore) promise nel futuro ciò che rifiutò nel tempo presente, dicendo: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio [Mt 5,2]. E in questo caso non disse: «Perché vedono Dio».

In definitiva, se Dio — che in questa vita non avrebbe potuto, né (mai) potrebbe, esser visto se non dopo aver assunto un qualche elemento (materiale) — sarà visto nella vita futura, allora la perfezione della contemplazione divina va perseguita dove regnerà la pienezza d’ogni bene.

(Questa parte del capitolo 13 corrisponde al capitolo VII della “Vita contemplativa” di Giuliano Pomerio (n. 450 circa - m.500 circa). Testo estratto dall’edizione curata da Mario Spinelli, Città Nuova 1987)

Esaltando la sublimità della vita contemplativa nel futuro, quando s'attingerà la perfezione, non ho inteso negare ch’essa possa esser raggiunta (già) nel presente da parte di tutti coloro i quali disprezzano il mondo, se solo vi si convertono con tutta la devozione; se, desiderandola ardentemente, disdegnano le lusinghe terrene e, divenuti ben più forti dei legami con cui li avvincono gl’interessi temporali, si concentrano sulla meditazione delle cose divine e delle future promesse.

(Questa parte del capitolo 13 corrisponde al capitolo VI della “Vita contemplativa” di Giuliano Pomerio (n. 450 circa - m.500 circa). Testo estratto dall’edizione curata da Mario Spinelli, Città Nuova 1987)

Persone come queste, anche in questa vita, possono diventare partecipi della vita contemplativa.

Poiché molte cose sono già state dette nei capitoli precedenti sulla vita contemplativa, ciò che abbiamo detto qui è sufficiente ed andiamo a considerare le altre cose che si devono dire sulla vita dei solitari.

Capitolo 14: I nostri santi Padri iniziarono a vivere la vita solitaria per poter raggiungere la perfezione della vita contemplativa

Poiché i nostri antichi Padri desideravano la patria del cielo e desideravano godere della vita contemplativa nella sua perfezione, fuggirono non solo dal modo di vivere delle persone del mondo, ma anche dalla loro compagnia. Si nascosero nelle foreste e nelle caverne, sapendo che più si allontanavano dai piaceri del mondo, più gli angeli avrebbero tenuto loro compagnia, e più si sarebbero ritirati da quest'epoca, più si sarebbero avvicinati a Dio. Volevano essere fisicamente separati dalle persone del mondo, in modo da non essere in qualche modo coinvolti nei loro affari.

Desideriamo, per quanto possibile, seguire il loro esempio e, se vogliamo fare qualche progresso nella vita contemplativa, ci impegneremo presto a separarci dalla compagnia di questo mondo. Sappiamo che spesso Dio protegge la vita dei suoi eletti in mezzo a persone carnali, ma è abbastanza raro che coloro che abitano in mezzo ai piaceri mondani rimangano indenni dai vizi. Anche se non sono immediatamente implicati in essi, sono comunque in qualche modo da essi sviati. Infatti, se rimani vicino al pericolo, non sarai in grado di starne a lungo al sicuro.

Su questo punto le Conferenze dei Padri dicono:

«È bello fuggire il mondo. Quando una persona è vicino al mondo, è come un uomo in piedi vicino ad un lago profondo. Ogni volta che il suo nemico vuole, può facilmente buttarlo a terra. Ma se uno è lontano dal mondo, è come un uomo che abita lontano da un lago. Se il suo nemico cerca di buttarlo a terra, mentre lo trascina con forza, Dio lo aiuterà” (Vitae Patrum, 5.2.12; PL 73,859).

Nello stesso luogo si dice anche:

“L'uomo che fugge dagli uomini è come un grappolo d'uva maturo. Una persona che si associa alla gente, però, è come un'uva acerba”.

E dice anche questo:

“Chi ama il silenzio resta insensibile alle frecce del nemico, mentre chi si mescola alla folla riceve più ferite."

Il beato Arsenio, mentre era ancora nel palazzo, temeva questa associazione con il mondo, e così pregò il Signore e dicendo: “O Signore, guidami alla salvezza”. E subito gli venne una voce che diceva: “Arsenio, fuggi la gente e sarai salvo”. Più tardi, quando fu entrato nella vita monastica, pregò di nuovo il Signore con la stessa preghiera e disse: “O Signore, guidami alla salvezza”. E di nuovo udì una voce che gli diceva: “Arsenio, fuggi, taci, stai nella quiete, perché queste sono le radici del non peccare”. (Vitae Patrum, 5.2.3; PL 73,858)

«Inoltre un Padre raccontò anche che tre fratelli volentieri diventarono monaci, e uno di loro scelse di ristabilire la pace fra i litiganti, secondo quanto sta scritto: Beati i pacifici, ecc. Il secondo invece si prefisse di visitare gli infermi, secondo queste parole: sono stato infermo, ecc. Il terzo infine se ne andò a vivere in solitudine. Il primo dunque che si occupava di litigi fra la gente non riuscì a fare progressi nella sua opera di pacificazione; e pertanto dichiarandosi sconfitto si recò da colui che prestava servizio agli infermi, e trovò che anch’egli era scoraggiato e incapace di realizzare pienamente il suo scopo. Allora questi due d’accordo andarono a trovare l’eremita, gli raccontarono le loro angustie e gli chiesero di esporre i progressi che aveva fatti. Dopo un po’ di silenzio, mise l’acqua in una brocca e disse loro: “Osservate l’acqua”. Era torbida. Dopo un po’ disse loro: “Guardate ora come l’acqua è diventata trasparente”. Ed essi guardandola videro il proprio volto riflesso come in uno specchio. Allora disse: “Lo stesso avviene per chi sta in mezzo alla gente: a causa della folla egli non vede i suoi peccati; quando invece ha ritrovato la calma, specialmente nella solitudine, allora riconosce le sue colpe» (Vitae Patrum, 5.2.16; PL 73,860).

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

In questo racconto, vediamo chiaramente quanto vantaggio offra la vita solitaria. È una specie di stadio dove correggere il nostro modo di vivere. “Chi siede in solitudine”, cioè in reclusione, “è libero da tre guerre, cioè quella dell'udito, quella del parlare e quella del vedere. Una persona così deve combattere contro una cosa sola: i pensieri del cuore". Si tenga presente che è molto meglio vivere in mezzo a tante persone e condurre la vita solitaria, piuttosto che essere nel deserto e nutrire nella propria mente il desiderio di stare con molte persone. Infatti le persone mondane, se commettono qualche crimine in questo mondo, vengono mandate in prigione, anche se non vogliono andarci. Allo stesso modo noi, a causa dei nostri peccati, andiamo nella prigione della reclusione, affinché, con questa punizione volontaria della nostra mente, possiamo meritare di essere risparmiati dalle pene future. Così, come dice l'Apostolo: “Se giudichiamo noi stessi in questo tempo, non saremo giudicati dal Signore nel tempo che verrà” [cfr. 1 Cor 11,31].

 

Capitolo 15: Riguardo alla procedura per accogliere i fratelli nella reclusione

Nostro Signore Gesù Cristo chiama tutti al suo servizio e, nella sua fedeltà e misericordia, riceve tutti coloro che vengono a lui. Chiama e riceve tutti, perché lui stesso sa chi sono i suoi, e «non ha bisogno di nessuno che renda testimonianza sugli uomini, perché egli sa cosa c'è in loro» [Cfr. Gv 2,25]. Ma noi, che non abbiamo modo di sapere quali sono gli uomini cattivi e quali sono buoni se non li abbiamo messi alla prova, dobbiamo attenerci a questo consiglio dell'Apostolo: "Mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio" [1 Gv 4: 1]. Ecco perché un nuovo arrivato al servizio di Dio deve prima essere accuratamente testato e solo in seguito ricevuto. Questa procedura ha lo scopo di impedire ad una persona di tentare di avvicinarsi alla vita solitaria con una mente piena di finzioni ed uno spirito pieno di inganni. Perciò si deve indagare sulla sua vita passata e sul suo modo di vivere per vedere se è stato temperante nella sua condotta, casto nella sua vita, sobrio, saggio, umile, obbediente, amabile, istruito nella legge del Signore, attento nel dare istruzioni a se stesso.

Quando dunque sarà stato sottoposto a queste ed altre prove, se avrà perseverato nel bussare e se, dopo quattro o cinque giorni, risulterà che ha sopportato con pazienza le ingiurie che gli sono state fatte e le difficoltà di ammissione e sarà rimasto risoluto nel desiderare ciò che chiede, allora la sua ammissione sia approvata o dal vescovo o dal suo abate. Ma senza il consenso del vescovo o dell'abate del luogo e anche di tutti i fratelli del monastero in cui quel fratello è stato formato, la questione non deve essere assolutamente risolta. Deve anche essere proibito che qualcuno si risolva a vivere questo stato di vita religioso in qualsiasi luogo che non sia una comunità di cenobiti; a nessuno deve essere permesso di decidere di vivere in questo modo nei villaggi o nelle chiese di campagna o in qualsiasi altro luogo, a meno che qualcuno non voglia andare nel deserto, come fecero i nostri antichi Padri.

 

Dopo che il Vescovo, od il Superiore del monastero, gli avrà concesso di ritirarsi in convento, viva per un anno in mezzo ai fratelli, così da non uscire dal chiostro se non per andare in Chiesa, affinché in questo modo sia messa alla prova la sua volontà e la sua fermezza. Se poi nello stesso monastero, o nei monasteri vicini, c’è un eremita apprezzato, venga assegnato a lui, perché lo esamini. Se invece non vi si trova alcun eremita, gli venga assegnato un anziano che si occupi e si prenda cura di lui con tutto l’impegno possibile, per vedere se realmente cerca Dio, dedicandosi seriamente all’obbedienza, alla preghiera e a tutte le altre simili pratiche spirituali. Gli siano presentate tutte le difficoltà e le avversità attraverso le quali si giunge a Dio. E se darà garanzia di perseveranza, con la sua fermezza, gli si legga questa regola, e gli si dica: “Ecco la legge sotto cui tu vuoi militare; se puoi osservarla, entra; se invece non puoi, ritorna libero”. Se resterà ancora saldo, gli si rilegga questa Regola assiduamente, affinché sappia a cosa va incontro, sia provato in ogni sua capacità di sopportazione.

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

Se ha riflettuto dentro di sé e promette di mantenere tutto, allora con calma e silenziosamente sia accolto nel proposito per cui ha deciso, sapendo che è stabilito dalla legge della Regola che da quel giorno in poi egli non potrà uscire da quel recinto; né potrà togliersi dal collo il giogo della Regola che, durante tanta lunga riflessione, era libero o di declinare o di accettare.

Colui che deve essere accolto prometta, nell'oratorio, alla presenza del vescovo e di tutto il clero, con le sole parole, la sua stabilità e la conversione del suo modo di vivere, davanti a Dio ed ai suoi santi, in modo che se mai agirà diversamente, ciò non sia mai, sappia che sarà condannato da colui di cui si fa beffe.

 

Colui poi che deve essere accolto in comunità, stando in chiesa alla presenza del Vescovo e di tutto il Clero, pronunci la promessa di voler perseverare o il suo cambiamento di vita davanti a Dio ed ai suoi santi, di modo che, se mai avverrà (che Dio non voglia!), che egli si comporti diversamente, sappia di essere dannato da Dio, di cui si prende gioco. Allora il fratello si prostri ai piedi del Vescovo e di tutti i fratelli ivi presenti, affinché preghino per lui. Tutti allora subito preghino per lui, quanto a loro sembrerà opportuno. Poi, se il Vescovo o l’Abate lo avranno ordinato, facciano suonare le campane al momento del suo ingresso, affinché tutti, sentendo quel suono, preghino per lui.

Se possiede poi qualche bene, come si dice nei precedenti capitoli, lo doni prima ai poveri, oppure, dopo averne fatto donazione solenne, lo consegni al monastero, senza conservare nulla per sé. Dovrà restare con gli stessi vestiti con cui sarà entrato e così in seguito rimanga in solitudine. Dopo il suo ingresso però, il Vescovo ordini di segnare col suo sigillo la porta di chiusura della celletta, affinché non resti per caso qualche sospetto in qualcuno.

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 16: Come deve essere la cella di reclusione

La cella di reclusione deve essere piccola e deve essere circondata da tutti i lati da muri molto solidi, in modo che non ci sia alcuna opportunità per il solitario di girovagare fuori ed in modo che nessuna entrata sia lasciata aperta perché qualcuno possa entrare da lui, cosa non consentita. Affinché ogni occasione di dover uscire sia vanificata, avrà all'interno del recinto delle stanze che soddisfino i suoi bisogni. Così avrà un oratorio consacrato dal vescovo, se cioè il solitario è sacerdote. Questo oratorio deve essere attiguo all'edificio della chiesa. In questo modo, attraverso una finestra dell'oratorio, il solitario potrà offrire i sacrifici nelle Messe per mano dei sacerdoti e potrà sentire chiaramente i fratelli che cantano e leggono e potrà cantare insieme a loro i salmi. Saprà anche dare risposte a chi si rivolgerà a lui.

Davanti a questa finestra deve essere appesa una tenda, sia all'interno che all'esterno, in modo che non possa essere visto facilmente dall'esterno, né lui stesso possa vedere all'esterno. Altrimenti potrebbe entrare la morte attraverso la porta degli occhi, come sta scritto: Bada che la morte non entri nella tua anima attraverso le tue finestre [cfr Ger 9,21]. E l'Apostolo ordina che la gente stia in guardia contro gli spettacoli e le manifestazioni pubbliche.

All'interno delle mura di reclusione avrà un piccolo giardino, se sarà possibile, in cui potrà di tanto in tanto uscire e piantare e raccogliere qualche verdura e potrà prendere un po' d'aria fresca, perché l'aria fresca gli farà molto bene.

Fuori dalle mura di reclusione ci siano anche altre piccole celle in cui vivono i suoi discepoli. Queste celle devono essere attigue alla sua, affinché i suoi discepoli abbiano un mezzo adatto per fornirgli, a suo tempo, le cose di cui ha bisogno.

Se due solitari abitano nello stesso luogo, come si sa in molti luoghi, vi sia fra loro un silenzio immenso, una grande quiete ed una carità perfetta. I singoli solitari devono essere separati in singole cellule, ma devono essere inseparabilmente uniti nello spirito e nella fede e nella carità. Le loro celle non devono essere separate da uno spazio, ma così collegate tra loro che i solitari possano avvicinarsi ad una finestra e lì possano incoraggiarsi a servire Dio, possano dedicarsi insieme alle sacre preghiere, a recitare insieme le divine Scritture e possano riunirsi all'ora opportuna per il sostentamento corporeo.

Come è stato detto, le celle dei solitari devono essere attigue alla chiesa. Alle donne non è permesso prendere cibo né passare del tempo nelle celle dei solitari o in quelle dei loro discepoli, e non devono nemmeno essere fornite di alcun pretesto per entrarvi, poiché si legge che ciò era severamente vietato dai santi Padri. Se però le donne hanno bisogno di parlare con i solitari per confessarsi o per avere consigli sulla loro anima, entrino in chiesa e, davanti a tutti, parlino davanti alla finestra che si apre sull'oratorio, e con prudenza e profitto decidano ciò che desiderano dire e lo espongano. Come in tutte le altre cose, così anche nel conversare con le donne, i solitari sono obbligati a dare il buon esempio a tutti. Per esempio, il loro colloquio con le donne non deve fornire a nessuno l'opportunità di farsi un'impressione sbagliata. Devono astenersi, non solo dai colloqui privati ​​con le donne, ma anche dal vederle o toccarle. San Basilio ha questo da dire a proposito del parlare con le donne: "Non permettere che le tue orecchie si abituino a sentire le parole delle donne, perché da quelle parole, nella tua anima, concepirai la malvagità " (Basilio Magno, Admonitio ad filium spiritualem, 7). A questo proposito san Girolamo dice: “La cosa principale che tenta i servi di Dio sono le frequenti visite delle donne” Girolamo, Epistola 42,2), perché una donna colpisce la loro coscienza con un fuoco furioso e brucia il loro cuore. A proposito di toccare le donne San Basilio dice: “Non desiderare di toccare la carne di una donna, perché toccandola il tuo cuore non si infiammi. Come la paglia che sta vicino al fuoco divampa, così chi tocca la carne di una donna non se ne andrà senza nuocere alla sua anima. Anche se se ne andrà ancora casto nel corpo, se ne andrà ferito nella mente e nel cuore” (Basilio Magno, Admonitio ad filium spiritualem, 7).   Le donne non devono mai essere baciate dai solitari, perché il bacio è una delle quattro forme di amore fisico. Le donne vanno amate non carnalmente ma spiritualmente. Ma cosa dire riguardo al guardarle? Il Signore afferma chiaramente: «Chi guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» [Mt 5,28]. Per questo San Basilio dice: "Non guardare la figura di una donna con occhio spudorato, perché attraverso le finestre dei tuoi occhi la morte non entri nella tua anima" (Basilio Magno, Admonitio ad filium spiritualem, 7). E quindi i solitari devono evitare di guardare spesso le donne. Ciò vale soprattutto per coloro che avevano vissuto tra i laici o che erano stati sposati. Evitino di fare i padrini, sia di uomini che di donne; sebbene sia lecito, non è comunque un bene per loro.

 

Capitolo 17: Non ci devono mai essere meno di due o tre solitari nello stesso tempo.

Si faccia ogni sforzo affinché, se possibile, non vi siano mai meno di due o tre solitari contemporaneamente. I solitari vivranno rinchiusi in celle singole, ma in modo tale che possano parlarsi attraverso una finestra e possano incoraggiarsi a vicenda a compiere l'opera di Dio. Per molte ragioni, percepisco che la compagnia di due solitari è utile a coloro che sono uniti nella stessa volontà e nello stesso scopo. Viceversa, vedo che, per molte ragioni, vivere la vita solitaria senza nessuna compagnia è pericoloso.

 

«Certo il primo rischio che incombe sul solitario, ed è gravissimo, consiste nel compiacersi di se stesso, credendo di essere già ormai giunto alla perfezione, pensando di essere quello che in realtà non è. Questo pericolo di solito lo corre colui che manca della possibilità di un confronto probante. Di costoro infatti dice l’Apostolo: “Se infatti uno pensa di essere qualcosa mentre non è nulla, inganna se stesso” (Cfr. Gal 6,3). Poi ancora egli ignora se possiede in abbondanza qualche virtù oppure se ne è privo. Infatti egli, essendo solo, non può chiedere a qualcun altro ciò che gli è utile o ciò che gli manca. Infine, egli non può riconoscere con facilità né le sue colpe né i suoi vizi, poiché non vi è nessuno che gli faccia osservazioni o lo riprenda. A questo solitario può facilmente accadere quello di cui parla la Scrittura: “Guai a chi è solo: poiché se cade non ha nessuno che lo rialzi” (Cfr. Qo 4,10).

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Cosa impedirà ai solitari di esercitare i loro desideri malvagi, se non hanno nessuno che possa ostacolare la loro volontà? O come metteranno alla prova la loro umiltà o pazienza o carità, se non hanno nessuno verso cui esercitare queste virtù?

«E infatti non può essere sufficiente uno solo, quantunque eccelso, ad assumere tutti i doni dello Spirito Santo, perché, come dice l’Apostolo (1Cor 12,8), “a uno viene concesso (dallo Spirito) il linguaggio della sapienza, a un altro invece il linguaggio di scienza, e altri doni simili” Perciò se secondo la distribuzione dello Spirito Santo viene dato a uno ciò che è negato ad un altro, è necessario che ve ne siano due o tre volte di più, e coi carismi che ognuno ha ricevuto, gli uni e gli altri siano del pari consolati ed edificati»

Inoltre, la compagnia di molti è di grande aiuto contro le imboscate del nemico, che sono tese sia all'interno che all'esterno. Saranno più facilmente destati dal sonno e stimolati ad ogni opera buona. Anche la preghiera trae beneficio non poco da due fratelli, tanto più che il Signore dice: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà“ [Mt 18:19]. E dice anche: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” [Mt 18,20]. Inoltre, due possono ottenere dalla preghiera ben più di uno solo.

Una vita vissuta da solitari in comune ha molti altri vantaggi che ora non è possibile enumerare. Ma, parlando di due solitari in un luogo, dobbiamo dire che anche uno solo, purché sia stato provato, potrà beneficiare di questo tipo di vita.

 

Capitolo 18: Se i sacerdoti della campagna circostante o i giovani devono essere accolti nella vita solitaria

Poiché la bontà di Dio chiama tutti mediante quella chiamata amorosissima con la quale dice: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» [Mt 11,28], la decisione di allontanare chi è venuto per servire Dio è pericolosa. Tuttavia, non è senza la più attenta prova che qualcuno può entrare in questo santo stile di vita.

 

E come il Signore interrogò quel giovane che era venuto da lui intorno alla sua vita precedente, e dopo aver sentito che l’aveva trascorsa nella giustizia, gli ordinò di fare ciò che gli mancava dicendo: “Se vuoi essere perfetto va’, vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri” (Mt 29,21); e infine così gli ordinò di seguirlo; allo stesso modo anche noi “dobbiamo prima mettere alla prova lo spirito, per vedere se viene da Dio” (Cfr. 1 Gv 4,1), e così con carità ammettere al servizio di Dio tutti quelli che si mostrano in tal modo disposti.

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Se qualche sacerdote ordinato in paesi stranieri chiede di essere ricevuto, con l'intenzione di condurre prima o poi la vita solitaria, non gli si deve dare il permesso facilmente. Tuttavia, se persevera nel chiederlo, sia accolto e sappia che deve osservare tutta la disciplina della regola.

 

Ma perché non capiti che qualcuno tenti di raggiungere questo scopo simulando il suo pensiero, all’inizio dev’essere messo a dura prova. D’altronde, così si può distinguere con facilità se sopporta serenamente tutte le fatiche fisiche impostegli, e se le sopporta volentieri per una vita più austera, e si dimostra ben disposto ad una vita più austera; oppure se, interrogato, non prova assolutamente confusione nel confessare una sua colpa, anzi accetta con gioia la penitenza che gli viene imposta per quella mancanza; e se accetta ogni genere di umiliazione senza vergognarsi, e non arrossisce nell’applicarsi ai mestieri più umili e disprezzati, se la ragione lo richiede.

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

 Quando sarà stato messo alla prova da queste e altre pratiche, se rimarrà stabile e mostrerà uno spirito pronto, allora dovrà essere ricevuto.

Parimenti, se arriva un monaco pellegrino o un chierico da una provincia lontana e chiede di essere ricevuto per il suddetto motivo, sia accolto come ospite e messo alla prova nel modo già descritto. Se si è accontentato delle usanze del luogo che ha trovato e vuole rendere salda la sua stabilità, la sua intenzione non deve essere negata. Se, durante il suo soggiorno come ospite, sarà stato trovato esigente o corrotto - poiché durante questo periodo si potrà meglio scoprire che tipo di persona è - non solo non deve essere ricevuto, ma gli si deve dire francamente di andarsene, per timore che la sua misera condotta corrompa gli altri. Ma se non è il tipo di persona che merita di essere espulso, allora non deve essere espulso, ma persuaso a rimanere, in modo che gli altri possano essere istruiti dal suo esempio. Bisogna fare attenzione che un monaco di un altro monastero conosciuto non sia accolto a vivere nella comunità senza il consenso del suo abate o senza lettere di raccomandazione. 

 

«A proposito poi dei giovani non c’è alcuna difficoltà per l’accettazione, poiché il Signore dice di loro: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il regno dei cieli” (Mt 19,14). Infatti l’età infantile non nuoce ad alcuno, se egli sarà integro di spirito. E l’età senile non gioverà ad alcuno, se egli sarà stato gretto d’animo. Infatti si dice che è perfetto non colui che è avanti negli anni, ma colui che è puro di cuore. Per questo si dice nel libro della Sapienza: “La canizie per gli uomini sta nella sapienza: vera longevità è una vita senza macchia” (Sap 4,9). Infatti anche Davide, pur essendo ancora giovane, ma avendo un cuore puro, fu scelto come re dal Signore, e gli fu concesso lo spirito di profezia. Saul invece, pur essendo vecchio per età, per la sua malvagità fu deposto dal trono, e consegnato allo spirito del male. Assai malvagi erano quei Sacerdoti che hanno tentato di usare violenza a Susanna, mentre Daniele, che li ha condannati per le loro stesse parole, era ancora molto giovane. Infatti il Nostro Signore Gesù Cristo, al suo ingresso in Gerusalemme, viene lodato dai piccoli, mentre poi viene crocifisso dagli anziani. Infatti anche l’albero, per quanto abbia molti anni, se sarà infruttuoso, sarà tagliato: se invece sarà giovane, fecondo e ricco di frutti, viene coltivato di più, affinché produca frutti più abbondanti. Diciamo poi che ogni momento, a partire dalla più tenera età, è buono per istruire qualcuno nella scienza e nel timor di Dio. La professione poi di castità sarà sicura a partire dall’età in cui i secolari si ritengono abili alle nozze»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

 Tuttavia, si deve esercitare ogni cura affinché sia ​​data loro l'opportunità di mettere in pratica ogni virtù. Chiedano l'ingresso, come si è detto sopra, per i due anni prestabiliti e, se perseverano con coraggio e fervore, devono essere ricevuti nel modo sopra esposto.

 

«Inoltre ancora se qualche cattolico viene da noi dicendo “Voglio restare presso di voi per qualche tempo, affinché possa giovarmi di voi”, bisogna accettarlo, col favore del Signore, che dice: “Chiunque viene a me, non lo respingerò” (Gv 6,37). Talvolta, infatti, può accadere che faccia progressi nel tempo, e che si compiaccia di vivere santamente. Bisogna poi che noi, nel nostro modo di vivere e nella pratica religiosa, di cui forse la gente pensa diversamente, ci comportiamo con cautela e con sollecitudine, e che pratichiamo il precetto di colui che ha detto: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5,16). Infine, ci si comporti così: se egli è buono e sincero, possa avvantaggiarsi stando con voi, se invece è solo osservatore e bugiardo, se ne vergogni”.

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 19: Che tipo di persona e quanto debba essere santo il solitario

Il solitario deve essere quel tipo di persona che l'Apostolo ordina di essere ad un vescovo: “Il vescovo deve essere irreprensibile” [Tt 1,7]. Allo stesso modo, il solitario deve essere irreprensibile, non impudente, non irascibile, non bevitore di vino, non grande mangiatore, non violento, non doppio nel parlare, non neofita e non avido di sporco guadagno. Se diciamo prima di tutto che il solitario deve essere irreprensibile, non significa che, se avesse commesso qualche offesa prima della sua conversione, non sarebbe stato accolto nella vita solitaria, poiché per la sua stessa intenzione, sarebbe stato in grado di fare penitenza per il misfatto che aveva ammesso in precedenza. Ciò che intendiamo è che, dal momento in cui inizia a dimorare nella vita solitaria, non deve essere tormentato da alcun ricordo del peccato prima commesso: infatti, chi non ha vizi è irreprensibile. Ogni colpa è un peccato, ma ogni peccato non è una colpa. Di conseguenza, un solitario o chiunque altro può essere esente da colpe, ma non può mai essere esente dal peccato.

Ne consegue che il solitario non deve essere impudente, cioè orgoglioso, per non lasciarsi trasportare e cadere nella trappola del diavolo. Non deve essere irascibile: infatti, l’irascibile è una persona che si arrabbia sempre e si agita al più semplice sussurro di una risposta, come le foglie sono agitate dal vento. Non colui che si arrabbia occasionalmente è un irascibile, ma si dice irascibile colui che è costantemente sopraffatto da questa passione.

Diciamo che il solitario non deve essere gran bevitore di vino o gran mangiatore, perché dove c'è stata ubriachezza ed eccesso di cibo, la concupiscenza e lo sfrenato desiderio avranno il sopravvento. Di solito accade che colui che è dominato da questi due vizi offenda il sobrio decoro alzando la voce in una risata e ridendo smodatamente e turpemente dalle viziose labbra.

Il solitario non deve essere violento, cioè non deve essere pronto ad alzare la mano per colpire. Ciò non significa che, se un solitario ha un discepolo ed è stato autorizzato a farlo, non può percuotere il discepolo con pietà filiale, poiché Salomone dice: “I fianchi dei ragazzi devono essere battuti regolarmente con verghe, perché non si induriscano [cfr. Pr 13,24; 23,13-14; 29,15]. Ma questa espressione significa che colui che deve essere gentile e paziente, non deve perdere la calma e colpire la bocca o la testa di un altro.

Il solitario non deve essere doppio nel parlare, per non disturbare coloro che vivono nella pace. Non deve comportarsi come un neofita, per non cadere nella trappola del diavolo, poiché il neofita non sa ancora difendersi dalle tentazioni del nemico. Chi diventa in fretta un solitario non sa cosa sia l'umiltà e la dolcezza. Ignora come detestare le ricchezze del mondo e come disprezzare se stesso. Non ha digiunato, non ha pianto, spesso non si è rimproverato per la propria condotta e non l'ha corretta con un’assidua meditazione. Tale solitario passa da trono a trono, da orgoglio ad orgoglio.

Il solitario non deve essere avido di sporchi guadagni, per timore che cerchi di ottenere guadagni terreni dal servizio di Dio. L'appetito per lo sporco guadagno significa pensare più alle cose presenti che a quelle a venire: il solitario, infatti, ha cibo e vestiti, e di questi deve accontentarsi. Per questo l'Apostolo dice: “Coloro che servono l'altare, vivano dell'altare” [cfr. 1 Cor 9,13]. Dice "vivano", non diventino ricchi.

Il solitario non deve essere irritabile ed ansioso, non deve abbandonarsi agli eccessi o essere ostinato, non deve essere geloso o eccessivamente sospettoso, perché questo tipo di solitario non avrà mai riposo. Non sia dedito alla mormorazione, poiché sta scritto che coloro che mormoravano caddero vittime dei serpenti [cfr. Gdt 8,24-25 Vulgata; Nm 21,5-6; e 1 Cor 10,9].

Non deve disprezzare gli altri, a causa di ciò che è scritto: “Chi disprezza suo fratello sarà spazzato via” [cfr. Gc 4,11]. Non deve covare odio nel suo cuore, perché sta scritto: “Chi odia suo fratello è un omicida” [1 Gv 3,15]. Non deve essere chiacchierone, poiché sta scritto: "Di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio " [Mt ​​12,36].

Non sia pigro, a causa di ciò che è scritto: “Servo malvagio e pigro”, e così via [Mt 25,26]. Non sia assonnato o soggetto ad altri vizi, in modo che possa essere fiducioso e osi dire con il profeta: “Sono stato immacolato davanti a Dio e mi sono trattenuto dalla mia iniquità [Cfr. Sal 18(17),24].

Finora abbiamo mostrato che tipo di persona non debba essere il servitore di Dio, ora diciamo che tipo di persona debba essere. Il servo di Dio deve essere virtuoso, cioè deve tenersi a freno dalla lussuria e, come abbiamo già detto, deve distinguersi tra gli altri, non solo perché si astiene da azioni che lo renderebbe impuro, ma anche perché la sua mente è libera da pensieri vaganti.

Deve essere giusto, santo, casto, che pratica l'astinenza e l'ospitalità, che ama le opere buone, modesto, sobrio, paziente, gentile, umile, caritatevole ed obbediente; non solo deve astenersi da atti immorali, ma deve anche mantenersi libero dagli impulsi dello sguardo, della parola e del pensiero. Ed avvenga così, perché per tutto il tempo in cui il solitario non permette a nessun vizio di dominarlo, egli sarà in grado di chiedere perdono a Dio per le sue azioni malvagie e per quelle di tutti gli uomini.

Inoltre, il solitario deve vivere in modo tale che coloro che disprezzano la religione, non debbano disprezzare la sua vita. Se si comporterà così e perseguirà le virtù sopra menzionate, allora sarà un proficuo ministro di Dio e, con l'aiuto della misericordia divina, porterà a perfetto compimento il suo proposito.

Capitolo 20: Come devono essere istruiti i solitari, in che modo devono insegnare agli altri e come debbano prendersi cura di se stessi con discrezione

Il solitario deve essere un maestro, non uno che abbia bisogno di essere istruito; deve anche essere saggio e dotto nella legge divina, affinché sappia da quale fonte estrarre sia cose nuove che cose antiche [cfr. Mt 13,52].

Per molti motivi i solitari devono essere istruiti negli scritti divini. Primo, a causa delle astuzie e degli inganni che spesso il diavolo usa per immergersi nel cuore degli insensati. Secondo, affinché possano irrigare con i corsi d’acqua della dottrina i cuori inariditi di quei vicini che vengono da loro. E se il solitario ha dei discepoli, deve essere in grado di istruirli a sufficienza. In queste ed in altre simili situazioni, è assolutamente necessario che il solitario conosca le Scritture; perché se la santa vita servisse solo a lui, allora il fatto che viva santamente può giovare solo a sé stesso. Ma se sarà istruito nella dottrina, allora potrà istruire gli altri e respingere e confutare eretici, ebrei ed altri tipi di avversari; infatti, a meno che questi non siano confutati e dimostrati sbagliati, possono facilmente corrompere il cuore delle persone semplici.

La parola del solitario, tuttavia, deve essere pura, semplice ed aperta, piena di dignità ed onestà, piena di dolcezza, grazia e gentilezza. È suo speciale dovere spiegare il mistero della Legge, la dottrina della fede, la virtù della continenza e la disciplina della giustizia. Il solitario deve leggere le divine Scritture, esaminare i canoni, imitare gli esempi dei santi per sapere in anticipo che cosa, a chi, quando e come divulgare. Poiché non sempre lo stesso consiglio deve essere dato a tutti, ma ogni persona deve ricevere consigli diversi, a seconda della qualità del suo stato di vita e della sua condotta. Ci vuole un fermo rimprovero per correggere alcune persone, mentre un mite rimprovero corregge altre persone. Proprio come i medici esperti usano vari medicinali per adattarsi ai vari tipi di ferite, così il solitario deve applicare alle singole persone un adeguato rimedio di esortazioni; e consigli a ciascuna persona ciò che è appropriato all’età, al sesso ed allo stato di vita.

 

«Non si deve aprire tutto ciò che sta chiuso: infatti ci sono molti che non sono in grado di comprendere. Soprattutto a coloro che sono rozzi e carnali bisogna impartire insegnamenti semplici e ordinari, non verità eccelse e inaccessibili. Perciò l’Apostolo dice: “Non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali: come a neonati in Cristo vi ho dato da bere latte, non cibo solido” (1Cor 3,1). Come abbiamo detto, certamente non conviene dissertare in modo sublime davanti a gente carnale né di verità celesti né di verità terrene, ma occorre parlare con moderazione e discrezione. Infatti il corvo finché vede i suoi piccoli di colore bianco, non li nutre affatto, ma aspetta fino a quando anneriscono come lui, e solo allora li alimenta di frequente. Allo stesso modo, non conviene che un buon solitario sveli i misteri più profondi della comprensione spirituale se non a quei discepoli che vede tingersi di nero a sua somiglianza mediante il pentimento e la confessione, e, deposto il colore bianco secolare, rivestirsi dell’abito di lamento nel ricordo dei propri peccati, affinché, non comprendendo ciò che ascoltano, non incomincino a disprezzare anziché a venerare gli insegnamenti celesti. Perciò anche il Signore fra l’altro dice: “Non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe” (Mt 7,6). Finora abbiamo detto quanto dotto o quanto discreto nell’insegnare deve essere il solitario»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Passiamo ora al pronunciamento del beato Gregorio e vediamo con quale discrezione e circospezione dobbiamo guardare a noi stessi quando insegniamo. Lui dice:

“Poiché siamo esseri umani deboli, quando parliamo alle persone di Dio, dobbiamo prima ricordare ciò che siamo, in modo da poter riflettere sulla nostra fragilità e quindi determinare la sequenza da seguire nell'insegnare ai nostri fratelli. E quindi consideriamo o che siamo come alcune delle persone che stiamo correggendo o che un tempo siamo stati come loro. E se, per opera della grazia di Dio, ora non siamo come loro, dobbiamo correggerli tanto più dolcemente e con cuore umile quanto più chiaramente riconosciamo che anche noi un tempo siamo stati coinvolti in questi atteggiamenti vergognosi. Anche se ora non siamo, e non siamo mai stati, come quelle persone che ancora speriamo di correggere attraverso la penitenza, dobbiamo fare attenzione che il nostro cuore non diventi orgoglioso della nostra stessa innocenza e così precipiti in una rovina peggiore di quella delle persone di cui stiamo correggendo le cattive azioni. Inoltre, dobbiamo richiamare davanti ai nostri occhi altre loro buone azioni e, se non ce ne sono affatto, allora ricorriamo ai giudizi nascosti di Dio. Poiché come ricevemmo il bene che abbiamo senza meriti nostri, così la grazia della virtù celeste può riversarsi in loro e suscitarli in modo tale che gli stessi beni arrivati loro più tardi possano superare quei beni che noi abbiamo ricevuto prima. Con questi pensieri, quindi, dobbiamo prima umiliare il nostro cuore e solo allora rimproverare le azioni peccaminose dei malfattori”. (Gregorio Magno, Moralia in Job, 23,13)

Dobbiamo renderci conto che è conveniente che vescovi e sacerdoti predichino in un modo, ed i solitari in un altro. La responsabilità dei primi è di predicare alle persone che sono, per così dire, affidate alle loro cure, attraverso il biasimo, il rimprovero e l’ammonizione [cfr. 2 Tm 4,2].

 

Ai secondi invece, cioè i solitari, non come a gente che è stata loro affidata, ma per sola carità, conviene che ristorino tutti quelli che si accostano a loro col cibo di parole spirituali, e li consiglino umilmente e segretamente, affinché si convertano al servizio di Dio: tuttavia non bisogna che essi omettano l’esortazione severa, come se volessero guadagnarsi la simpatia della gente. Inoltre, anche noi dobbiamo predicare, pur tacendo, infatti: noi predicheremo, pur tacendo, quando offriremo agli altri il modello di una vita ben vissuta e mostreremo esempi luminosi”

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 21: I solitari diano a tutte le persone esempi di luce e vivano vite degne di lode, ma non aspirino ad essere lodati

La vita e la condotta dei solitari devono prendere norma ed esempio dall'Apostolo, che disse: «Mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» [1 Cor 9,22]. L'Apostolo si è presentato per essere imitato da tutti fino a gridare con sicurezza: «Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo» [1 Cor 11,1]. Oh, quanto fu felice, quanto fiducioso nella sua condotta Paolo, che oltrepassò i profeti, gli apostoli e gli altri santi ed ordinò ai cristiani di imitarlo! Ecco perché i solitari, anche se inferiori a Paolo, devono comunque presentarsi a tutti per essere imitati. Poiché, come è cosa preziosa e meravigliosa l’agire bene in mezzo alla moltitudine, l’ispirare molte persone a progredire ed imitare un esempio di buone opere, così è anche cosa pericolosa e distruttiva l’agire negligentemente, rovinando la fede e corrompendo le anime di molti. Dico questo perché purtroppo è più facile trovare chi segue ciò che è peggio, piuttosto che trovare chi segue ciò che è meglio. Perciò, come dev'essere grandemente ammirata e lodata quella persona la cui buona condotta di vita porta molti a progredire, così giustamente è deplorevole quella persona la cui vita è la rovina di molti. Quindi, molti solitari che conducono vite corrotte agiscono per gli altri come un modello per il male, mentre dovrebbero essere un esempio di come vivere una buona vita. I solitari che causano la rovina degli altri con l'esempio della loro cattiva condotta periranno senza dubbio insieme a loro per tutta l'eternità, ma solo se avranno perseverato nel male. Coloro che con il loro esempio o insegnamento corrompono la vita e la condotta delle brave persone sono molto peggiori di coloro che devastano i possedimenti e le proprietà degli altri. Questi ultimi, infatti, ci tolgono cose che ci sono esteriori, anche se ci appartengono, mentre coloro che corrompono i buoni costumi distruggono specialmente noi stessi, poiché la ricchezza degli uomini consiste nei buoni costumi.

Per questo motivo, noi che aspiriamo a condurre la vita solitaria dobbiamo dedicare sempre le nostre energie a fare ciò che può edificare gli altri. Dobbiamo stare attenti che i nostri vizi non danneggino le virtù degli altri, che la nostra tiepidezza non indebolisca il fervore degli altri, che la nostra ira non contamini la pazienza degli altri e che il nostro rancore non la violi, che il nostro orgoglio non corrompa l'umiltà degli altri, che la nostra malattia non contamini la salute degli altri, che il nostro decadimento non contamini la bellezza degli altri, che non spegniamo le lampade accese degli altri e che, ciò non sia mai, siamo esclusi con le vergini stolte dal regno di Dio [cfr. Mt 25,1-13].

Al contrario, mostriamoci di essere il tipo di persone la cui umiltà confonde la superbia degli altri, la cui pazienza spegne il rancore degli altri, la cui obbedienza rimprovera silenziosamente la pigrizia degli altri, il cui fervore spinge all'azione la tiepidezza degli altri. Inoltre, mostriamo a noi stessi di essere il tipo di persone che sono un esempio di luce per tutti. Così comanda il Signore, quando dice: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» [Mt 5,16]. Ed è per questo che san Paolo dice: «In ogni cosa, dunque, offri te stesso come esempio di buone opere» [Tt 2,7], «Nella parola, nella condotta, nella carità, nella fede, nella castità» [1 Tm 4,12]. A questo proposito, l'eccellente maestro Gregorio dice, nella sua esposizione di Ezechiele:

“Coloro che vivono bene in segreto ma non contribuiscono al progresso degli altri sono il carbone. Ma quelli che si dispongono in modo che la loro santità possa essere imitata e che emanano da sé la luce della rettitudine sono lampade, perché ardono per sé stessi e danno luce agli altri".

 Gregorio dice anche:

 "Coloro che evitano che gli altri sappiano della loro vita ardono per sé stessi, ma non fungono da esempio di luce per gli altri. Coloro, invece, che dispensano esempi di virtù e che manifestano la luce agli altri attraverso una vita di opere buone e con la parola della predicazione, sono giustamente chiamati lampade”.

(Gregorio Magno, Homiliae in Hiezechihelem, 1.5.7: 1.5.8)

 

Per questo il beato Girolamo dice:

 “Un modo di vivere irreprensibile, ma che è muto, quanto è benefico per l'esempio, altrettanto è dannoso per il suo silenzio,”.

(Girolamo, Epistola 69,8)

 

Quindi è molto chiaro che dobbiamo essere un esempio per tutti sia nella nostra condotta che nelle nostre parole. 

Tuttavia, i solitari devono stabilire di vivere vite degne di lode, ma non cercare di essere lodati, per timore che quella stessa lode li faccia cadere nella presunzione e nella vanagloria e per non cadere in rovina a causa del vizio pestilenziale della vanagloria: a tal fine devono conservare sempre nel loro cuore l'esempio dell'Apostolo: «Chi si vanta, si vanti nel Signore» [1 Cor 1,31], ed anche: «Se bisogna vantarsi – ma non conviene –» [2 Cor 12,1]. Dico questo perché raramente accade che coloro che vivono una vita degna di lode non siano conquistati dalla lode umana e affascinati dalla vanagloria. I solitari, quindi, devono sforzarsi di presentarsi sempre come esempi di persone che stanno morendo a tutti i vizi carnali, che vivono spiritualmente e che disprezzano la vanagloria.

Capitolo 22: Coloro che possono essere incaricati di governare ma che fuggono dall'essere al comando perché desiderano vivere una vita di pace

«Vi sono alcuni che, forniti di doni insigni di sapienza e scienza, sentendosi infiammati dal desiderio di dedicarsi esclusivamente alla contemplazione, rifuggono dal giovare al prossimo mediante la predicazione, amano la quiete in luoghi appartati, bramano la solitudine per attendere alla speculazione. In verità costoro se invitati rifiutano di assumersi la responsabilità di governo, per lo più essi sottraggono a se stessi quei doni, che sono stati loro concessi non solo per sé, ma anche per gli altri»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Poiché queste persone pensano al proprio vantaggio e non a quello degli altri, sono senza dubbio colpevoli di privare la comunità dei doni che avrebbero potuto apportare. Con quale ragionamento coloro che potrebbero risplendere e giovare agli altri preferiscono il loro ritiro solitario, quando l'Unigenito stesso del Sommo Padre ha voluto giovare a molti ed è uscito dal seno del Padre per il bene comune di tutti noi? Infine, la stessa Verità dice ai suoi discepoli nel Vangelo: «Non può restare nascosta una città che sta sopra un monte» [Mt 5,14], e anche: «Né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa” [Mt 5,15].

 

«(La Verità) disse quindi a Pietro: — Simone di Giovanni, mi ami tu? — Questi avendo risposto immediatamente che lo amava, si sentì dire: Se mi ami, pasci le mie pecore (Gv 21,17). Se dunque la prova dell’amore consiste nella premura di pascere, chiunque, ricco di virtù, rifiuta il pascolare il gregge di Dio, evidentemente non ama il sommo Pastore.

[San Gregorio Magno dice:]

“Se ci prendiamo cura del prossimo come di noi stessi, è come se proteggessimo entrambi i piedi con i calzari. Colui invece che, pensando al proprio interesse, trascura quello del prossimo, è come se perdesse con vergogna il calzare di un piede”.

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

[Continua San Gregorio Magno]

“Ci sono persone che, solo per umiltà, rifiutano di essere a capo di altri, per essere preferiti a coloro che considerano superiori a loro stessi: l'umiltà di tali persone — ammesso che sia unita alle altre virtù — sarà vera agli occhi di Dio se non si ostina a rifiutare ciò che è vantaggioso intraprendere. Né sono veramente umili quelle persone che capiscono il segnale della volontà di Dio di dover essere a capo di altri e che tuttavia rifiutano. Dal momento che la posizione di comando è loro imposta, e se sono già noti per avere doni con i quali possono essere a capo e giovare a sé stessi, devono fuggire dal proprio cuore ed obbedire controvoglia.

(Gregorio Magno, Regula Pastoralis, 1,5: 1,6)

 Fin qui le parole del beato Gregorio.

Su questo stesso argomento sant'Isidoro dice:

Un uomo di chiesa deve essere crocifisso al mondo mediante la mortificazione della sua carne e, se è sostenuto dalla volontà di Dio, deve anche intraprendere, certamente a malincuore, ma umilmente, il governo dell'ordine ecclesiastico. Satana tende un'imboscata con molti stratagemmi a coloro che danno prova di vivere con buon senso ed in modo utile, ma tuttavia non vogliono essere a capo e giovare agli altri. Anche se viene loro imposta la guida delle anime, rifiutano e pensano che sia più vantaggioso condurre una vita libera da impegni pubblici che dedicarsi al profitto delle anime. Tuttavia sono ingannati e agiscono come il diavolo li ha persuasi, ingannandoli con un'apparenza di bene, e poiché il diavolo li ha rimossi dall'ufficio pastorale, non gioveranno mai a quelle persone che avrebbero potuto essere istruite con le loro parole e con il loro esempio.

 

 

Capitolo 23: Sulla vita ed il comportamento dei solitari e su come devono comportarsi nella vita solitaria

Il beato apostolo Paolo si preoccupa, se così posso dire, della nostra vita e condotta e ci ammonisce come un padre dicendo: “Considerate infatti la vostra chiamata”, e così via [1 Cor 1,26]. La ragione per cui dobbiamo guardare alla nostra chiamata è questa: il nostro impegno per la vita solitaria ci servirà poco o niente se stiamo dentro di essa come eravamo nel mondo. Venire alla vita solitaria è l'apice della perfezione, ma non vivere perfettamente in solitudine è il massimo della dannazione. A che serve restare in un luogo tranquillo solo con il corpo ed essere tormentati dall'inquietudine che dimora nel proprio cuore? A che serve, dico, avere il silenzio in una casa, mentre coloro che vi abitano sono assaliti dal tumulto dei vizi e dall’ostilità delle passioni? A che serve se la serenità domina al di fuori di noi e la sciagura domina dentro di noi?

Non siamo venuti alla vita solitaria per poter godere di tutte le cose in abbondanza ed in perfetta quiete. Siamo venuti qui, non per il sollievo o la sicurezza, ma per lotta, ci siamo fatti avanti per combattere, ci siamo affrettati a far guerra ai vizi. Infatti, i nostri vizi sono i nostri nemici. Ma dobbiamo stare attenti a non vincolarci mai con essi. È necessario che stiamo incessantemente in guardia e vegliamo con attenzione, perché questo nemico non farà mai la pace: può essere sconfitto, ma non può essere accolto in amicizia. Questa battaglia, quindi, che abbiamo intrapreso è estremamente faticosa, estremamente dura, estremamente pericolosa, perché è condotta all'interno di un essere umano e termina solo quando la sua vita finisce.

Per questo scopo abbiamo intrapreso questa vita tranquilla, appartata, spirituale, per combattere quotidianamente con attacchi continui contro le nostre passioni, per eliminare la malvagità dal nostro animo, per attenuare la pericolosità della nostra lingua.

Poiché vogliamo erigere un’alta torre, prepariamo le risorse di cui abbiamo bisogno per costruirla, in modo da poter completare l'edificio che abbiamo iniziato, per non diventare lo zimbello dei passanti ed i nostri nemici si rallegrino di noi dicendo: “Costoro hanno iniziato a costruire, ma non sono riusciti a finire il lavoro” [cfr. Lc 14,30]. Possa il Signore allontanare da noi questa ingiuria. Questa torre non è fatta di pietre, ma di virtù dell'anima.

Ha bisogno di risorse, non d'oro e d'argento, ma di un modo di vivere pieno di fede. Infatti molto spesso la ricchezza terrena si frappone a questa costruzione. Perché è difficile servire due padroni e colui che serve mammona non può portare le armi spirituali, ma respinge il soave giogo di Cristo e lo getta via; e ciò che è pesante e gravoso per la sua anima gli sembrerà soave e leggero [cfr. Mt 11,28-30]. Il solitario di quel tipo viene ferito dalle sue stesse armi e, poiché ama il pericolo, precipita nella morte.

Se noi, da parte nostra, desideriamo militare per Dio, dobbiamo servire Lui solo e lasciarci alle spalle le ricchezze terrene. Questo è il segno caratteristico della nostra professione: che non cerchiamo alcun tipo di onore in questa vita, ma ci prepariamo a ciò che è promesso come nostra ricompensa eterna, che ci rallegriamo di essere soggetti agli altri e di essere considerati buoni a nulla, che abbracciamo la povertà volontaria e sradichiamo dal nostro cuore non solo i beni, ma anche il desiderio di essi, poiché non giova a nulla il non avere ricchezze, se si è posseduti dal desiderio di averle. Dobbiamo avere, non tanto quanto la nostra brama desidera, ma solo quanto ci serve. Il desiderio di possedere, infatti, se non è del tutto soppresso, arde più ferocemente nelle piccole cose e tormenta di più nelle cose minime. C'è un altro caso estremamente grave e deplorevole, cioè quando si impiegano con grande attenzione tutte le proprie forze su qualcosa e non si riceve il frutto di quello sforzo.

«A che cosa serve infatti digiunare e vegliare, e poi non correggere il proprio modo di vivere? È come se un vignaiolo strappasse le erbacce e pulisse fuori o intorno alla vigna, e lasciasse invece la vigna stessa abbandonata e incolta, di modo che vi spuntano spine e rovi»

O a cosa serve affliggere il corpo se siamo contaminati dai discorsi malvagi e denigratori della lingua, come dice l'Apostolo: “Se qualcuno ritiene di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione è vana” [Gc 1,26]. Tutti i nostri sforzi non svaniscono così come fumo e ombra e non si dissolvono nel nulla come la cenere della stoppa? Ecco perché è inutile per noi lusingarci di crocifiggere il corpo e tormentare il cuore, se il nostro io esteriore, cioè il nostro corpo, è impegnato in sante fatiche mentre il nostro io interiore non è guarito dalle passioni, cioè dalla detrazione, dall’ira, dal risentimento, dall’ ipocrisia e dagli altri vizi di questo genere.

 

«Sicuramente un solitario come questo a me sembra simile a un artista che facesse una statua d’oro all’esterno, mentre all’interno questa fosse di fango. Oppure assomiglierebbe ad una casa splendidamente costruita a regola d’arte, che si presenta all’esterno dipinta con vivaci colori, mentre all’interno è piena di serpenti e scorpioni. Di gente simile nel Vangelo si dice: “Guai a voi, ipocriti, che somigliate a sepolcri imbiancati, che all’esterno sono belli a vedersi; dentro di voi invece siete pieni di ipocrisia e iniquità” (Mt 23,27). Anche lo stesso Signore, quale medico premuroso, a questo proposito, a noi che siamo infermi, poco più sopra, dà un consiglio dicendo: “Pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi netto” (Mt 23,26). Vale a dire: monda prima il tuo cuore da ogni ipocrisia e iniquità, da ogni rabbia e detrazione, e allora la tua opera sarà tutta splendida, senza la minima parte di ombra»

 (Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 24: Sullo stesso argomento del capitolo precedente

Capitolo 25: Gli strumenti delle buone opere

1.              Prima di tutto amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze;

2.              poi il prossimo come se stesso.

3.              Quindi non uccidere: cioè non odiare, poiché, come dice l’apostolo Giovanni: “Chiunque odia il proprio fratello è omicida” (1 Gv 3,15)

4.              non commettere adulterio,

5.              non rubare,

6.              non avere desideri illeciti,

7.              non mentire;

8.              onorare tutti gli uomini,

9.              e non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi.

10.          Rinnegare completamente se stesso. per seguire Cristo;

11.          mortificare il proprio corpo,

12.          non cercare le comodità,

13.          amare il digiuno.

14.          Soccorrere i poveri,

15.          vestire gli ignudi,

16.          visitare gli infermi,

17.          seppellire i morti ;

18.          alleviare tutte le sofferenze,

19.          consolare quelli che sono nell'afflizione.

20.          Rendersi estraneo alla mentalità del mondo;

21.          non anteporre nulla all'amore di Cristo.

22.          Non dare sfogo all'ira,

23.          non serbare rancore,

24.          non covare inganni nel cuore,

25.          non dare un falso saluto di pace,

26.          non abbandonare la carità.

27.          Non giurare per evitare spergiuri,

28.          dire la verità con il cuore e con la bocca,

29.          non rendere male per male,

30.          non fare torti a nessuno, ma sopportare pazientemente quelli che vengono fatti a noi;

31.          amare i nemici,

32.          non ricambiare le ingiurie e le calunnie, ma piuttosto rispondere con la benevolenza,

33.          sopportare persecuzioni per la giustizia.

34.          Non essere superbo,

35.          non dedito al vino,

36.          né vorace,

37.          non dormiglione,

38.          né pigro;

39.          non mormoratore,

40.          né maldicente.

41.          Riporre in Dio la propria speranza,

42.          attribuire a Lui e non a sé quanto di buono scopriamo in noi,

43.          ma essere consapevoli che il male viene da noi e accettarne la responsabilità.

44.          Temere il giorno del giudizio,

45.          tremare al pensiero dell'inferno,

46.          anelare con tutta l'anima alla vita eterna,

47.          prospettarsi sempre la possibilità della morte.

48.          Vigilare continuamente sulle proprie azioni,

49.          essere convinti che Dio ci guarda dovunque.

50.          Spezzare subito in Cristo tutti i cattivi pensieri che ci sorgono in cuore

51.          e manifestarli al padre spirituale.

52.          Guardarsi dai discorsi cattivi o sconvenienti,

53.          non amare di parlar molto,

54.          non dire parole leggere o ridicole,

55.          non ridere spesso e smodatamente.

56.          Ascoltare volentieri la lettura della parola di Dio,

57.          dedicarsi con frequenza alla preghiera;

58.          in questa confessare ogni giorno a Dio con profondo dolore le colpe passate e cercare di emendarsene per l'avvenire.

59.          Non appagare i desideri della natura corrotta, odiare la volontà propria,

60.          obbedire in tutto agli ordini dell'abate, anche se - Dio non voglia! - questi agisse diversamente da come parla, ricordando quel precetto del Signore: "Fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno" (Mt 23,3).

61.          Non voler esser detto santo prima di esserlo, ma diventare veramente tale, in modo che poi si possa dirlo con più fondamento.

62.          Adempiere quotidianamente i comandamenti di Dio.

63.          Amare la castità,

64.          non odiare nessuno,

65.          non essere geloso e non coltivare l'invidia,

66.          non amare le contese,

67.          fuggire l'alterigia

68.          e rispettare gli anziani,

69.          amare i giovani,

70.          pregare per i nemici nell'amore di Cristo,

71.          nell'eventualità di un contrasto con un fratello, stabilire la pace prima del tramonto del sole.

72.          E non disperare mai della misericordia di Dio.

 

Ecco, questi sono gli strumenti dell'arte spirituale! Se li adopereremo incessantemente di giorno e di notte e li riconsegneremo nel giorno del giudizio, otterremo dal Signore la ricompensa promessa da lui stesso: "Né occhio ha mai visto, né orecchio ha udito, né mente d'uomo ha potuto concepire ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano" (1 Cor 2,9).

L'officina poi in cui bisogna usare con la massima diligenza questi strumenti è formata dai chiostri del monastero e dalla stabilità nella propria famiglia monastica.

(Estratto dalla “Regola di san Benedetto”, cap. IV)

 

Capitolo 26: Osservare i comandamenti di Dio

«Per questo il beato Gregorio dice: I precetti del Signore sono molti, ma si può anche dire che sono uno solo. Molti, a causa delle diverse azioni; uno solo a causa dell’unica fonte dell’amore»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 27: Una deplorevole descrizione di coloro che non osservano i precetti di Cristo

«Ma ora vediamo che differenza c’è fra la giustizia dei Farisei e quella dei Cristiani. L’uccisione li ha resi colpevoli e degni di giudizio; come osiamo adirarci ogni giorno tanto facilmente non solo coi più giovani, ma anche coi coetanei, e coi più anziani? Dovremo rendere conto nel giudizio, secondo quanto dice nostro Signore, non solo dell’ira, ma anche di ogni parola inutile. Raca infatti significa stupido, oppure superficiale e vuoto. E siccome il nostro fratello crede in Cristo come noi, come osiamo chiamarlo superficiale, vuoto, o privo di intelligenza? Ora, il fatto che il Signore usi la parola “stupido” e “sciocco”, dimostra che non ci sarà perdonata la più piccola offesa recata al fratello, per quanto lieve essa sia, così che non possiamo evitare il giudizio su tutto, se prima non abbiamo risarcito colui che abbiamo offeso e se non espiamo debitamente in questa vita la nostra colpa».

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 28: Si continua lo stesso lamento di cui sopra

«Infatti per chi vuole effettivamente osservare gli insegnamenti di Cristo, essi non sono impossibili, anzi sono leggeri; per chi invece non vuole osservarli ed è disubbidiente, essi sembrano duri e impossibili»

«Quale conseguenza dopo queste riflessioni? “Non giudicate per non essere giudicati” (Mt 7,1). Infatti io credevo di trovare un sollievo alla mia riservatezza, mentre invece ora ho motivi per provare confusione. Anche se noi non avessimo commesso alcun altro peccato, basterebbe abbondantemente questo perché noi fossimo gettati nella geenna: infatti noi siamo giudici severi e spietati delle mancanze altrui, mentre invece non vediamo le travi che stanno conficcate nei nostri occhi. Non riuscirai a trovare nessuno esente da questo vizio, né la gente del mondo, né il monaco, né il solitario»

«Non date, dice, le cose sante ai cani, né gettate le vostre perle ai porci (Mt 7,6). Noi invece al contrario per amore di lode e corrosi dal vizio del vanto, ci comportiamo in modo contrario a questo insegnamento e senza alcun discernimento sveliamo i misteri nascosti a gente che non ha rettitudine d’intenzione né possiede una fede sicura e inoltre è inviluppata nel groviglio della colpa»

«Così sogliono fare anche quelli che si propongono di abbandonare il mondo. Quando poi si informano sui Monasteri o sull’eremo, od anche sulla località, prima di tutto discutono sulla pace e sull'opportunità. Tuttavia subito la prima preoccupazione e le prime parole sono queste: C’è pace là dove si deve andare? Si trovano là in abbondanza le cose indispensabili? In primo luogo infatti, come ho detto, chiedono preoccupati se manca ciò che esige la via larga e spaziosa»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 29: Compunzione del cuore

«Infatti la compunzione del cuore consiste nell’umiltà della morte, associata alle lacrime, al ricordo dei peccati e al timore del giudizio. Infatti la compunzione del cuore nasce dalla virtù dell’umiltà. Dalla compunzione del cuore poi nasce la confessione dei peccati. Dalla confessione dei peccati deriva il pentimento. Dal pentimento viene il perdono dei peccati. Quattro infatti sono le varietà di sentimenti che affliggono la mente del giusto con un’afflizione salutare: vale a dire il ricordo dei peccati trascorsi, il pensiero delle pene future, la considerazione del suo peregrinare in questa misera vita terrena, il desiderio della patria celeste, per potervi pervenire al più presto possibile. Quando dunque questi sentimenti hanno sede nel nostro cuore, allora c’è motivo di credere che Dio sia presente con la sua grazia nell’animo dell’uomo»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 30: I due tipi di compunzione

«Due pertanto sono i generi di compunzione, uno che discende dall’alto e l’altro che sale dal basso. Infatti quello che proviene dal basso si ha quando si temono nel pianto i supplizi dell’inferno. Quello invece che proviene dall’alto si ha quando uno si affligge piangendo per il desiderio del regno dei cieli. Bisogna infatti sapere che non avrà alcuna possibilità di pervenire alla compunzione del cuore colui che sarà stato smodato nel ridere e nel divertirsi. Infatti non è conveniente che colui che si sforza di ascendere alla vetta della perfezione, si diverta allo stesso modo di un bambino privo di ragione, né che si metta a sghignazzare a bocca aperta, mentre gli si addice la dimostrazione della sua gioia interiore solo mediante un sorriso. Infatti è 53 una follia ridere sgangheratamente. Infatti è proprio di un bambino il gioco, mentre a un adulto si addice il pianto. In verità il gioco e il riso rendono trascurato e tiepido l’uomo giusto nel servizio di Dio. Oh quale danno provocano il riso e il gioco, mentre al contrario quale guadagno procurano il pianto e il lutto! Chi infatti in questa vita si compiace di ridere, piangerà poi in seguito assai amaramente. Chi invece vorrà piangere quaggiù, in seguito potrà godere senza fine. Infatti anche il nostro Salvatore chiama beati coloro che piangono. Mentre invece di quelli che ora godono, dice che piangeranno nell’ultimo giorno. Perciò l’Apostolo Giacomo dice: “Gemete sulla vostra miseria, fate lutto e piangete; il vostro riso si muti in lutto e la vostra allegria in tristezza” (Gc 4,9). Perciò anche Salomone dice: “Anche fra il riso il cuore prova dolore” (Pr 14,13). Per questo Gregorio dice: “Nessuno può su questa terra godere col mondo e poi di là regnare con Cristo in cielo”. Anche nelle raccolte dei Padri si legge: “Un vecchio, vedendo uno che rideva gli disse: ‘Siamo destinati a rendere conto di tutta la nostra vita davanti a Dio e agli uomini e tu ridi”»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 31: Riguardo alla riverenza ed alla persistenza nella preghiera

«La sfiducia in realtà trae origine dal fatto che ognuno si accorge di avere ancora legami con il peccato; infatti, dice l’Apostolo, la preghiera assidua del giusto può ottenere molto»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 32: Come si può pregare senza sosta

Capitolo 33: Tutti i pensieri vuoti sono illusioni operate dai demoni

Capitolo 34: Dio e gli angeli sono sempre presenti a coloro che cantano i salmi

Capitolo 35: La lode dei salmi e la disposizione delle ore alle quali dobbiamo cantare i salmi

«Costui (il beato Antonio) una volta, mentre stava seduto nell’eremo, si sentì nel suo animo preso da un senso di insoddisfazione e di confusione mentale, perché non riusciva ancora a lavorare con sufficiente impegno. Allora rivolgendosi al Signore gli dice: “Signore, voglio salvarmi, ma me lo impediscono le mie fantasie. Cosa posso fare in questo mio stato di malessere, come potrò salvarmi?”. Dopo un po’ si alzò, uscì fuori e vide un tale come lui che stava seduto e lavorava: infine, lo vide mentre si alzava dal lavoro e si metteva a pregare, e poi di nuovo si metteva a sedere intrecciando una corona di palme; poi di nuovo ancora si alzava per pregare. Era quello l’angelo del Signore inviato per correggere e ammonire Antonio. Dopo udì la voce dell’angelo che diceva: “Comportati così e ti salverai”. Allora egli, udito ciò, provò una grande gioia unita a fiduciosa speranza. E comportandosi in seguito in questo modo, trovò la salvezza che andava cercando»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 36: Se qualcuno deve osare di ricevere il corpo del Signore o cantare la messa ogni giorno

«Non si tratta di una mia opinione personale, ma di una asserzione dei santi Padri, secondo cui ritengo che sia possibile celebrare quotidianamente la Messa e accostarsi con timore e tremore ai santi misteri del Signore, per riceverne il corpo e il sangue. Tuttavia la condizione richiesta è di essere mondi da ogni contaminazione della carne e dello spirito, e accostarsi alla sacra mensa con timore grande e tremore, perché chi brama di accogliere dentro di sé un ospite così importante, non solo deve essere casto nel corpo, ma anche mondo nell’anima. Infatti ci fu un Padre venerabile, di nome Apollonio, che esortava i fratelli a mettersi in comunione ogni giorno con i misteri di Cristo, perché non avvenisse che chi si tiene lontano da questi misteri fosse anche lontano da Dio. Diceva infatti: “Chi si accosta di frequente a questi santi misteri, senza dubbio accoglie lo stesso Salvatore, poiché è stato proprio lui a dire: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me ed io in lui” (Gv 6,56) … A proposito di questa riflessione, il beato Gregorio nel suo libro dei dialoghi dice: Dobbiamo pertanto disprezzare con tutto il nostro animo questo mondo, offrire ogni giorno sacrifici di lacrime a Dio, immolare quotidianamente come vittima il suo corpo e il suo sangue. Infatti questa vittima straordinaria salva l’anima dalla morte eterna. Ma è indispensabile che mentre compiamo questi santi misteri immoliamo anche noi stessi con il cuore contrito. Dico anche che dobbiamo aver fede, perché dopo morte non avremo bisogno di una vittima che ci salvi, se noi stessi prima di morire saremo stati vittima gradita a Dio. Perciò è bene che ciò che ognuno aspetta con fiducia che avvenga dopo la propria morte per mezzo di altri, lo faccia egli stesso mentre è in vita a proprio vantaggio. È certo preferibile uscire libero dal carcere piuttosto che cercare la libertà dopo le catene. Perciò di nuovo lo stesso Papa nello stesso libro prosegue dicendo: Infatti ci fu un certo Cassio, Vescovo di Narni, che conduceva una vita santa ed era solito quotidianamente offrire a Dio il santo sacrificio, così che si può dire che non trascorreva nessun giorno della sua vita senza che egli immolasse a Dio onnipotente la vittima di espiazione. Mentre piangendo egli offriva se stesso come vittima, ricevette questo messaggio dal Signore, tramite l’apparizione di un presbitero, che gli diceva: “Fa’ quello che devi fare, comportati come stai facendo, né il tuo piede né la tua mano si ritraggano. Nel giorno anniversario degli Apostoli verrai a me, e ti darò la tua ricompensa”. Egli, sette anni dopo, nel giorno anniversario degli Apostoli, dopo aver celebrato solennemente la Messa, spirò. A questo proposito si deve riflettere quanto sia importante ogni giorno immolare quali vittime il corpo e il sangue di nostro Signore Gesù Cristo, ed è evidente quanto sia salutare il cibarsi di questo rimedio. Per questo un poeta venerando ha detto: È un grande sostegno poter pascere di questa sacra offerta votiva, purché l’anima di chi ne beneficia non sia oppressa da qualche colpa. Perciò anche il celebre dottore Agostino in un suo libro ha detto: Nulla deve paventare il cristiano quanto l’essere privato del corpo di Cristo. Se infatti è separato dal corpo di Cristo, non è più un suo membro; se poi non è un suo membro, non può essere alimentato dal suo spirito. Per questo motivo l’Apostolo dice: “Se qualcuno non ha lo spirito di Cristo, non gli appartiene” (Rm 8,9). Perciò ciascuno si comporti piamente in modo coerente con la propria fede che suggerisce ciò che deve fare. Infatti non furono fra di loro in disaccordo, né l’uno si ritenne superiore all’altro. vale a dire Zaccheo e il centurione, dal momento che il primo accolse con gioia il Signore, mentre il secondo disse: “Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto” (Mt 8,8). Entrambi hanno onorato il Salvatore e pur essendo entrambi peccatori in maniera quasi opposta, entrambi ottennero misericordia. Similmente a proposito del sacramento del corpo e del sangue del Signore, uno per onorarlo non osa riceverlo quotidianamente, un altro invece sempre per onorarlo non permette mai che trascorra anche un solo giorno senza riceverlo»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 37: Se qualcuno può o non può celebrare la messa dopo l'illusione che a volte accade nei sogni

Capitolo 38: Costanza nella lettura e nella preghiera

«Molti anche leggono, però dalla lettura non traggono alcun frutto. Di loro dice il Profeta “Avete seminato molto, ma raccolto poco. Avete mangiato, ma non siete sazi; avete bevuto, ma non siete inebriati” (Ag 1,6). Semina molto nel suo cuore, ma raccoglie poco, chi impara molto riguardo ai comandamenti celesti, leggendo od ascoltando, ma, operando con trascuratezza, rifiuta di trarne un po’ di vantaggio. Mangia e non si sazia chi, pur ascoltando la parola di Dio, brama il guadagno o il compiacimento del mondo. Beve e non si inebria chi presta orecchio alla lettura o alla predicazione, ma non riflette. Beve e non è inebriato chi desidera conseguire ciò che è di questo mondo. Infatti, di solito la mente di coloro che bevono è confusa dall’ebbrezza. Infatti, se uno si fosse inebriato, indubbiamente avrebbe mutato il suo modo di pensare, cosicché non cercherebbe più le cose terrene, non amerebbe più le cose vane e transitorie che aveva amato prima»

«Infatti quando preghiamo, parliamo proprio con Dio, quando invece leggiamo, Dio parla con noi»

«Nessuno infatti può comprendere pienamente il senso delle Sacre Scritture, se non gli diventano familiari»

«Come la terra quanto più è coltivata altrettanto produce un raccolto più abbondante, così chi legge molto spesso comprende di più”. «Non è consigliabile che gli Eremiti leggano libri profani, perché non si verifichi che, a causa dell’attrazione di piacevoli racconti privi di contenuto, o di invenzioni poetiche, alimentino gli stimoli delle passioni. E non è bene neppure eccedere nel tentativo di conoscere i misteri divini, visto che la Scrittura dice: “Non cercare le cose troppo difficili per te, non indagare le cose per te troppo grandi”. Per questo l’Apostolo, stupefatto, diceva: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rm 11,33). Perciò, quello che si legge va meditato con attenzione e va esaminato con prudente sensibilità; manteniamoci fedeli, secondo le raccomandazioni dell’Apostolo, a ciò che è giusto, e respingiamo ciò che è contrario alla verità. Impariamo ciò che è bene, così da poter restare, con l’aiuto di Dio, immuni da ciò che è male»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 39: Il lavoro manuale quotidiano dei solitari

«Così si comportava Paolo, il primo e il più famoso eremita. Quando viveva in un eremo più spazioso, era tranquillo per il vitto, perché si cibava soltanto dei frutti delle palme e di verdura; tuttavia, raccoglieva le foglie di palma ed esigeva da se stesso un impegno di lavoro quotidiano, come se con quello si dovesse guadagnare da vivere. E dopo aver riempito la grotta del frutto del suo lavoro di tutto l’anno, appiccato il fuoco, bruciava tutto ciò che con molta premura aveva confezionato ogni anno. Costui infatti, come è stato detto, lavora non per la necessità di procurarsi del cibo, ma per punire il suo corpo e purificare il suo animo, e anche per rafforzare il suo proposito di voler vivere in una cella si comportava in questo modo. Diceva poi anche che l’eremita non può durare a lungo nel deserto senza il lavoro manuale e neppure può raggiungere la vetta della perfezione, alla fine. Al contrario, ci fu un altro fratello che, arrivato presso l’abate Silvano sul monte Sinai, vide lì due fratelli impegnati a lavorare e disse loro: “Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna” (Gv 6,27). “Maria si è scelta la parte migliore” (Lc 10,42). Disse allora il vecchio al suo discepolo: “Va’ a chiamare questo fratello e sistemalo in una cella dove non c’è nulla”. Alle tre pomeridiane questo fratello stava attento presso la porta, in attesa di qualcuno che venisse a chiamarlo per andare a mangiare. Ma, siccome nessuno gli rivolgeva la parola, si alzò per andare dal vecchio a dirgli: “Padre, hanno mangiato oggi gli altri fratelli?”. E il vecchio gli rispose: “Sì, hanno già mangiato”. Allora il fratello di rimando: “E come mai non mi hai mandato a chiamare?”. E il vecchio rispose: “Ma tu sei un uomo spirituale e perciò non hai bisogno di questo cibo; noi invece siamo fatti di carne e vogliamo mangiare, perciò lavoriamo con le nostre mani; tu invece hai scelto una buona parte, leggendo per tutto il giorno e non volendo prendere il cibo materiale”. Il fratello, ascoltate queste parole, si prostrò umilmente in terra, esprimendo il suo pentimento e dicendo: “Perdonami, padre”. Allora il vecchio gli disse: “Penso che l’opera di Maria non possa essere minimamente disgiunta da quella di Marta. Attraverso Marta infatti si elogia Maria”. Perciò gli eremiti hanno il dovere di faticare con le proprie mani per procurarsi quel cibo di cui hanno bisogno per sostentarsi, perché chi vive in una quiete inerte, se non si impegna in un lavoro manuale e se non vive spiritualmente, si adatta a vivere alla maniera delle bestie»

«Benché infatti lo stesso Apostolo, come nel caso prima citato, abbia scelto di lavorare con le proprie mani per guadagnarsi da vivere, tuttavia ogni volta che ne aveva la necessità, riceveva sostentamento dai fedeli. Così, trovandosi ad un certo punto in grande bisogno, gli fu inviato dai fratelli quanto poteva servire alle sue impellenti necessità. Egli allora rispose ringraziandoli e disse: “Avete fatto bene a venire incontro ai miei bisogni. Io infatti so patire la fame ed essere nell’abbondanza, so anche sopportare la povertà. Posso tutto nel nome di Chi mi ha sempre confortato. Ad ogni modo, voi avete fatto bene a intervenire a mio favore” (Ef 4,12-14). In questo passo dunque è dimostrato che talvolta egli riceveva dai fedeli sostentamento nella necessità. Per questa ragione il Beato Agostino ci dà un consiglio, dicendo “Coloro che non possono fare come Paolo, cioè mantenersi con il lavoro delle proprie mani, ricevano il necessario per provvedere alle proprie necessità dalla gente, pur tenendo conto della loro debolezza. Se nella nostra casa – dice – o nella nostra Società alcuni sono bisognosi, non proibisco che i Religiosi, o le Religiose, diano a loro ciò che credono bene dare, né a questi ultimi proibisco di ricevere. Infatti anche lo stesso Signore, che gli Angeli hanno servito, aveva dei piccoli fondi, e accettandoli dai fedeli, distribuiva il necessario ai suoi discepoli e a tutti i bisognosi”»

«Se dev’essere messo in vendita qualcuno dei prodotti degli Eremiti, decidano essi stessi chi deve occuparsi di ciò, perché non ritengano che vi sia di mezzo qualche imbroglio. Si ricordino sempre di Anania e di Saffira, affinché la morte, che quelli soffrirono nel corpo, questi non debbano patirla nello spirito. Nello stabilire il prezzo, non si insinui il male dell’avidità, ma si venda sempre ad un prezzo leggermente inferiore di quello praticato dai laici, affinché in tutte le cose venga glorificato Dio»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 40: In certe ore i solitari devono essere occupati nel lavoro manuale

Capitolo 41: I solitari non devono avere nulla di proprio e devono accettare le offerte dei fedeli

Così pure nello stesso passo: «Il Sacerdote – dice – (lo si legge nel libro di Prospero) riceve, non solo senza avidità, ma anzi lodando la generosità, i beni che la gente deve distribuire, e che sono distribuiti onestamente, poiché ogni suo avere o l’ha lasciato oppure l’ha aggiunto ai beni della Chiesa, e si è posto tra i poveri per amore della povertà, così da vivere egli stesso, in quanto povero per scelta, con ciò di cui fa dono ai poveri»

«Tutto ciò che ha la chiesa, dice Prospero, lo abbia in comune con tutti quelli che non possiedono nulla; ma d’altra parte l’amministrazione di questi beni è nelle mani di coloro che sono oppressi o dall’infermità o dall’anzianità. Inoltre è necessario ricordarsi di quanto si legge negli Atti degli Apostoli: “Portavano l’importo dei campi che erano stati venduti e lo deponevano ai piedi degli apostoli, e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno” (At 4,34-35). Ancora: “Nessuno tra di loro era bisognoso” (At 4,34) E di nuovo: “E nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune” (At 4,32)»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 42: Le ore in cui i solitari devono prendere i loro pasti

Capitolo 43: La tavola dei solitari

Capitolo 44: Evitare l'eccesso di indulgenza

Capitolo 45: La quantità di bevanda dei solitari

Capitolo 46: Evitare l'ubriachezza: l'elogio della sobrietà

Capitolo 47: Se tutti devono ricevere in egual misura le necessità della vita

«Nelle raccolte dei S. Padri si riporta spesso questo esempio che, quantunque prolisso, è tuttavia utile a questo proposito: Un giorno venne da Roma un signore, che svolgeva un ruolo importante nel palazzo imperiale, e si mise ad abitare la Scizia nelle vicinanze di una chiesa. Aveva con sé uno dei suoi servi, che aveva cura di lui. Il sacerdote di quella chiesa vedendolo infermo e sapendo che egli era un uomo che era vissuto nel lusso, gli mandava quello che poteva per soccorrerlo. Questo signore, dopo essere vissuto per quindici anni in Scizia, diventò un uomo contemplativo e previdente e assai famoso. Un monaco egiziano, avendone sentito parlare, venne per incontrarlo, sperando di avere personalmente con lui una conversazione molto elevata. Appena giunto da lui, lo salutò e dopo la preghiera si misero a sedere. L’egiziano però vedendo che quello era vestito con abiti delicati ed aveva una pelle distesa ai suoi piedi, ed anche un piccolo guanciale per posarvi il capo sul suo giaciglio, inoltre notando che i suoi piedi erano puliti ed avvolti da calzature, si scandalizzò per questo suo comportamento, perché lì non c’era l’usanza di vivere in quel modo, anzi il comportamento era piuttosto austero. Quel vecchio romano però che viveva da contemplativo ed aveva il dono della lungimiranza, si accorse che quel monaco egiziano aveva provato scandalo per causa sua, e allora disse al suo servo: “Dato che è giunto qui da noi questo Abate, fa’ in modo che trascorriamo lietamente questo giorno”. Il servo fece cuocere un po’ di verdura che aveva e al momento opportuno si allontanò per mangiare. Il vecchio aveva pure un po’ di vino e bevvero anche quello. Venuta la sera, recitarono dodici salmi e poi si addormentarono. Lo stesso avvenne anche durante la notte. Al mattino poi l’egiziano, dopo essersi alzato, gli disse: “Prega per me”. E se ne uscì non certo edificato. Dopo che si era allontanato un po’, il vecchio romano volendolo consolare, mandò qualcuno per richiamarlo indietro. Dopo che questi ritornò, lo accolse con gioia. Poi gli fece queste domande: “Di che nazione sei?”. Rispose: “Sono egiziano”. “Di quale città?”. Allora egli disse: “Io non provengo da alcuna città e non vi ho mai abitato”. Allora il vecchio gli disse: “Prima di diventare monaco, quale attività svolgevi nel luogo di tua proprietà?”. Ed egli: “Sorvegliavo i campi”. Ancora: “Dove dormivi?”. L’egiziano: “Nei campi”. E il romano: “Avevi qualche giaciglio?”. Ed egli di rimando: “Nei campi avevo il mio giaciglio”. E il vecchio: “Ma come dormivi?”. L’egiziano: “Sulla nuda terra”. E il romano: “Cosa mangiavi in campagna, o quale vino bevevi?”. Ed egli: “Mangiavo del pane secco e, se riuscivo, un po’ di pesce salato, e poi bevevo dell’acqua”. E aggiunse: “Avevi nella tua tenuta un bagno per poterti lavare?”. E l’egiziano: “No, però potevo lavarmi nel fiume quando volevo”. Dopo avergli posto tutte queste domande ed aver saputo come egli viveva in precedenza e le fatiche che doveva sopportare, volendo che egli facesse ulteriori progressi, gli raccontò il suo modo di vivere in passato, quando ancora viveva nel mondo, dicendo: “Io sono quel miserabile che tu vedi, provengo dalla grande città di Roma, dove vivevo in un palazzo con un incarico molto elevato presso l’imperatore”. Appena l’egiziano ebbe udito l’inizio di questo discorso, subito provò un rimorso dentro di sé ed ascoltava le sue parole con premura. E il vecchio aggiunse: “Lasciai dunque Roma e venni in questo vasto deserto”. Aggiunse poi ancora: “Proprio io che ti sto parlando possedevo case grandi e spaziose, avevo anche molto denaro, ma disprezzando tutti questi beni sono venuto qua e abito in questa piccola cella incavata. Ascolta ancora: avevo anche letti rivestiti in oro e giacigli preziosi: ora al loro posto Dio mi ha dato questo suolo e questa pelle. Ma anche i miei vestiti erano di inestimabile valore: al loro posto ora mi servo di questi miseri stracci di poco conto. Nei miei pranzi si consumava anche molto vino; al suo posto Dio mi ha dato questa poca verdura e un po’ di vino nel bicchiere. Vi erano allora anche tanti servi che avevano cura di me. In cambio di tutti loro ho questo Dio che mi soccorre. Invece di un bagno spazioso mi servo di poca acqua per lavarmi i piedi e uso queste calzature data la mia infermità. E ancora al posto di flauti, cetre ed altri strumenti musicali, che mi piaceva ascoltare durante i miei pasti, ora ogni giorno recito ad altra voce dodici salmi; altrettanto faccio durante la notte, ma in risarcimento dei peccati da me commessi in passato ora presto un modesto servizio a Dio. Per questo ti prego, abate, di non scandalizzarti per la mia debolezza”. Allora l’egiziano disse: “Io invece piuttosto ho lasciato la vita faticosa di quando ero secolare per venire a riposarmi in monastero come monaco, e quello che mi mancava fuori nel mondo qui lo possiedo. Tu al contrario dalla vita assai piacevole nel mondo, per tua spontanea decisione, sei venuto qui a vivere fra gli stenti, e in cambio di molte ricchezze e onori hai abbracciato questa vita di povertà e di umiltà”. Dopo questa conversazione molto proficua, l’egiziano salutò 58 e se ne andò; e poi, essendo diventato suo amico, spesso si recava da lui per trarne vantaggio. Il cittadino romano era un uomo sagace nella ricerca del bene e tutto ricolmo di ottimo profumo dello Spirito Santo. Perciò, ci deve essere una grande discrezione nel giudicare fra nobili e miserabili, fra sani e infermi, fra vecchi e giovani. Infatti non sono in grado di osservare con la stessa intensità la vita austera coloro che provengono da una vita di piaceri e coloro che invece non li hanno mai assaporati. Del resto i sani e gli infermi non possono fare sacrifici e rinunzie allo stesso modo. Quindi, secondo il suggerimento dell’Apostolo: “Chi non mangia non disprezzi chi mangia, e colui che mangia non giudichi male chi non mangia” (Rm 14,3). Ma reciprocamente sopportandosi con benevolenza, tengano conto della debolezza degli altri»

«Dunque il Beato Agostino, uomo saggio in tutto, dice “il vitto e il vestito non siano dati a tutti in misura uguale, ma piuttosto si dia a ciascuno secondo quanto sarà necessario.” Si legge così, infatti, negli atti degli Apostoli: “Veniva distribuito ai singoli secondo quanto era necessario a ciascuno e tra essi non vi era alcun povero” (At 4,34-35). Con ciò non intendiamo dire che presso Dio vi sia preferenza di persone, bensì di infermità, di modo che chi è meno bisognoso, ringrazi Dio chi invece è più bisognoso, sia umile per la sua infermità e non si vanti per la compassione ricevuta anzi, ringrazi Dio, in quanto Egli viene benedetto in ogni circostanza»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 48: Solitari malati e vecchi

«I Superiori poi, come abbiamo detto, abbiano la massima cura perché i cellari non trascurino i vecchi e gli infermi, perché tutte le mancanze dei discepoli sono da imputarsi ai maestri. Si tenga perciò sempre presente la loro fragilità, e non si osservi mai nei loro confronti la Regola in maniera rigida per quanto riguarda il cibo o altre necessità, ma si abbia per loro una affettuosa considerazione e, se sarà opportuno, anticipino le ore canoniche»

«In tempo di malattia, le celle degli infermi non restino ermeticamente chiuse, di modo che vi possano entrare i fratelli. Essi tuttavia badino di non uscire fuori del tempo stabilito dalle loro celle, se il Vescovo ve li ha fatti rinchiudere, apponendovi il sigillo. Infatti non li deve costringere a stare rinchiusi un sigillo di cera o di piombo, ma il sigillo di Cristo. Così infatti si legge che si sia comportato un uomo degno di venerazione, chiamato Martino, in un libro di conversazioni. Costui, siccome abitava in montagna in una spelonca aperta, si legò un piede con una catena di ferro, che fissò dall’altra parte ad un macigno, affinché non gli fosse permesso camminare oltre la lunghezza della catena. Avendo appresa questa notizia un uomo degno di venerazione per la sua vita, Benedetto, fece in modo che gli pervenisse questo messaggio tramite un suo discepolo: “Se tu sei un servo di Cristo, non dev’essere una catena di ferro a trattenerti, bensì l’amore di Dio”. Ascoltate queste parole, Martino si liberò subito dalla catena, ma non si spinse mai camminando più lontano di quanto era solito fare quando era legato. E anche in seguito continuò ad imporsi di rimanere senza catena in quel ristretto spazio dove stava in precedenza quando era legato. Pertanto si comportino così anche quelli che vivono segregati. Non appena poi si siano ristabiliti dalla loro infermità, secondo consuetudine, venga sigillata la porta della loro cella, e rimangano di nuovo soli»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 49: L'abbigliamento e le calzature dei solitari

«Isidoro dice: il vestito dei solitari non dev’essere né troppo spregevole né troppo lussuoso, perché un abito prezioso porta l’animo verso la dissolutezza, mentre uno troppo scadente o procura sofferenza oppure fa nascere la vana gloria»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 50: Il giaciglio dei solitari

Capitolo 51: Devono radersi in determinati momenti, in modo da non essere pelosi

«Per questo si dice che anche il beato Gregorio, rivolto ad un romano, abbia citato il seguente proverbio: “Se la santità consiste nella barba, allora nessuno è più santo di un caprone”»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 52: I discepoli dei solitari e la loro obbedienza

«Per questo nelle raccolte dei Padri viene riportato questo esempio: l’Abate Silvano aveva un discepolo di nome Marco, che era un modello di obbedienza ed anche uno scrittore. Il vecchio perciò lo prediligeva per la sua obbedienza. Aveva anche dodici altri discepoli, che erano afflitti perché egli lo amava più di loro. Avendo appresa questa notizia, i fratelli più anziani che erano lì vicino, cioè che l’Abate Silvano amava questo discepolo più degli altri, se ne rammaricarono. Un giorno si recarono da lui e l’Abate Silvano prendendoli con sé uscì per andare a bussare alla porta delle singole celle dei suoi discepoli, dicendo: “Fratello, vieni, perché ho bisogno di te”. Ma uno di questi non lo seguì subito, ma andò a bussare alla porta di Marco dicendo: “Vieni, fratello, perché ho bisogno di te”. Ora egli stava scrivendo, e non completò neanche la lettera o, e venne. Dissero gli anziani: “Veramente, Abate, amiamo anche noi colui che tu ami, perché anche il Signore lo ama”. Questo è il motivo per cui ho riportato questo esempio: affinché i discepoli imparino ad ubbidire senza indugio»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 53: Riguardo al buon zelo che i solitari devono avere verso i loro discepoli

«Se il monaco si accorgerà che ciò che gli viene imposto oltrepassa del tutto il limite delle sue forze, non opponga resistenza rifiutando l’imposizione, ma con umiltà e pazienza esponga al Superiore che gli ha comandato il motivo della sua impossibilità, fino a quando, secondo la sua discrezione, non sia sollevato da quel peso, per non incorrere nel difetto dello spirito di contraddizione»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 54: Come i solitari devono digiunare

«Bisogna anche chiedersi se sia opportuno che i Solitari digiunino per due o tre giorni. Ecco la risposta del Beato Girolamo: Poco cibo e ventre affamato è preferibile ad un digiuno di tre giorni, e mangiare poco ogni giorno è molto meglio che mangiare a sazietà ogni tanto. La pioggia migliore di tutte è quella che cade a poco a poco sulla terra; infatti l’acquazzone improvviso e violento rovina i campi coltivati. Per questo motivo nelle conferenze dei Padri si legge così: “L’Abate Giuseppe – dice – chiese all’Abate pastore: Come bisogna digiunare? È bene digiunare? Rispose: È bene che il Monaco o il Solitario mangi ogni giorno, e rinunci ad una piccola parte del cibo, in modo da non saziarsi. Disse l’Abate Giuseppe: Allora, quand’eri giovane, non osservavi il digiuno di due giorni? Disse il vecchio: Credimi, io osservavo anche quello di tre giorni e di una settimana. Ma i saggi anziani esaminarono tutto ciò, e scoprirono che è bene mangiare ogni giorno un po’, in modo da aver fame ogni giorno. Dimostrarono infatti che questa via regia è agevole da percorrere, poiché i digiuni di due e di tre giorni sono segno di vanagloria. Un altro fratello lo interrogò dicendo: A che servono i digiuni e le veglie che fanno gli uomini? Gli rispose il vecchio: A rendere umile l’anima. È per questo che Davide diceva: “Mi affliggevo col digiuno, riecheggiava nel mio petto la mia preghiera” (Sal 33,13). Infatti i Giusti e i nostri Profeti quando volevano impetrare qualcosa da Dio si maceravano nel digiuno, e così avevano la gloria di ottenere ciò che chiedevano. Umiliamo anche noi così le nostre anime col digiuno, e allora otterremo da Dio ciò che chiederemo»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 55: I solitari devono rompere il digiuno per il bene degli ospiti

«Pertanto, riguardo all’accoglienza, per motivi di carità, di fratelli che giungano all’improvviso, il Beato Prospero si esprime così: “Se infatti io, per l’arrivo di qualcuno, interrompo il digiuno e mi ristoro, non vengo meno al digiuno, ma compio un dovere di carità. Del resto, se a motivo della mia astinenza o del mio digiuno rattristo i miei fratelli in ispirito, che so che provano invece piacere per la mia interruzione, il mio astenermi dal cibo non va più chiamato virtù, ma peccato”»

Poco oltre, aggiunge (Beato Prospero): «Il Monaco o il Solitario rompe il digiuno, da cui non si può essere dispensati … Quando l’Abate Silvano, insieme al suo discepolo Zaccaria, si recò in un monastero per fare una visita, i Monaci, prima che essi ripartissero, li fecero ristorare per carità. Eppure erano giorni di digiuno. Poi, dopo essere usciti, il suo discepolo per strada trovò dell’acqua, e volle bere: ma guardandolo l’Abate Silvano disse: “Non bere Zaccaria non sai che oggi è giorno di digiuno?” Ma questi rispose: “Padre, non abbiamo forse mangiato e bevuto oggi, al Monastero?” Gli disse il vecchio: “Quello è stato un pasto caritatevole, noi però rispettiamo il nostro digiuno, figlio mio”. Con grande efficacia viene qui dimostrato che possiamo, con un certo discernimento, comportarci in entrambi i modi cioè talvolta ristorarci a motivo di carità, quando sopraggiungano degli ospiti, ma anche non venir meno alla regola del digiuno. San Cassiano interrogò a questo proposito un vecchio, dicendo “Perché tra voi con tanta indifferenza si interrompono i digiuni quotidiani a causa di ospiti?”. Il vecchio rispose: “Il digiuno l’ho sempre con me; voi invece dovrò lasciarvi andar via presto, e non potrò tenervi continuamente con me; perciò adempio verso di voi il mio dovere di carità”. E proseguì dicendo: “Infatti i figli dello sposo non possono piangere, finché lo sposo è con loro. Quando se ne sarà andato, allora digiuneranno” (Mt 9,15). Così anche noi, dopo avervi congedati, osserveremo le regole del nostro digiuno»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 56: Carità

«Col seguente esempio si dimostra ciò che si intende dire. Una volta un fratello andò da San Macario, e gli offrì, per carità, un grappolo d’uva. Questi allora rese grazie a Dio per la cortesia del fratello e subito lo portò, per carità, ad un fratello che gli sembrava alquanto infermo. E questi a sua volta lo portò ad un altro. E così lo stesso grappolo d’uva fu portato in giro per tutte le celle, sparse in lungo e in largo nell’eremo, e nessuno sapeva chi l’avesse mandato per primo. Finalmente, viene portata allo stesso Macario, che l’aveva mandata per primo. San Macario allora, rallegrandosi perché vedeva nei suoi fratelli tanta carità e temperanza, si dedicò ad esercizi di vita spirituale sempre più impegnativi»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 57: Umiltà

«L’uomo deve vergognarsi della sua superbia, poiché, come dice Salomone, “dove ci sarà superbia, lì ci sarà disprezzo; dove invece ci sarà umiltà, lì ci sarà sapienza” (Pr 11,2), e su di lui si poserà lo Spirito Santo. Perciò il Signore dice, per bocca del Profeta: “Su chi si poserà il mio Spirito, se non su chi è umile, e pacifico, e timoroso delle mie parole?” (Is 66,2). Pertanto, se qualcuno non sarà umile e pacifico, la grazia dello Spirito Santo non potrà abitare in lui. A coloro invece che sono umili nella loro condotta sono rivelati i segreti e tutto ciò che si cela nelle parole divine. D’altronde, la coscienza dei Solitari dev’essere sempre umile e compunta, appunto per non insuperbirsi grazie all’umiltà, e per non aprire il cuore alla dissolutezza, grazie alla benefica afflizione»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 58: Obbedienza

«Possiamo essere martiri anche senza essere colpiti dalla spada, se siamo autenticamente pazienti nel nostro animo. Infatti tanto meno uno si dimostra dotto, quanto meno si rivela paziente. Perciò Salomone dice: “È avvedutezza per l’uomo rimandare lo sdegno” (Pr 19,11).»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 59: La virtù della pazienza

«Consideriamo poi quanta pazienza avesse questo santo vecchio di cui ci accingiamo a parlare. C’era nell’eremo un grande vecchio, che viveva del lavoro delle sue mani, ma vi era anche un fratello che abitava vicino ed entrava spesso nella sua cella e gli portava via tutto ciò che aveva. Il vecchio lo notava, ma non lo rimproverava; anzi, si tormentava ancor più del solito per lavorare con le sue mani dicendo: “Credo che quel ladrone abbia proprio bisogno”. Privava poi il suo stomaco di una certa quantità di cibo e mangiava il suo pane da indigente. Quando questo vecchio avvertì i primi sintomi della morte e i suoi fratelli gli si strinsero intorno, fissando il ladro gli disse: “Accostati a me”, gli prese le mani e le baciò dicendo: “Ti ringrazio, fratello, per queste mani, perché mi permettono di salire al regno dei cieli”. Allora il ladro preso da rimorso si diede a far penitenza e divenne anche un monaco modello, imitando l’esempio di quel grande vecchio»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 60: Discrezione

Capitolo 61: Silenzio

«E come non ci può essere fuoco senza calore e splendore, così pure non vi può essere amore senza umiltà e autentica obbedienza»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 62: Evitare discorsi dannosi: due modi in cui qualcuno può parlare dei peccati di qualcun altro senza peccare

Capitolo 63: Consolazione dei solitari di fronte a discorsi malevoli

Capitolo 64: Pensieri e illusioni diaboliche

Capitolo 65: Le varie tentazioni dei solitari

Capitolo 66: Le tentazioni dei sogni

Capitolo 67: I solitari non devono cercare di compiere segni e miracoli

«Per questo motivo è bene che gli eremiti, secondo il consiglio dell’Apostolo, “con le armi della giustizia passino attraverso il successo e l’insuccesso, la gloria e il disonore, l’infamia e il buon nome” (2Cor 6,7-8) E come è detto per bocca di Salomone: “non sbandino né a destra né a sinistra”, ossia non si glorino per le loro virtù e i loro successi, non si incamminino sulla cattiva strada dei vizi, ma si tengano nel mezzo, e aspirino a raggiungere con un buon cammino Colui che è Via, Verità e Vita»
(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

«Il diavolo, infatti, quando non riesce, con il miraggio di una bella veste preziosa, a rendere qualcuno assai vanitoso, allora tenta di trarlo in inganno servendosi di immagini squallide e rozze. E quando non riesce a far cadere qualcuno con il miraggio della scienza e dell’abilità nel parlare, allora tenta di annientarlo servendosi della serietà del silenzio»

(Estratto da “Directorium Spiritus” vol. I e II, di Antonio Rosmini)

 

Capitolo 68: La triplice grazia dei carismi

Capitolo 69: I solitari, dopo che sono stati rinchiusi, non devono mai tornare alla vita secolare: la perseveranza nelle opere buone


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4 gennaio 2022        a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net