fides-et-ratio.it<\/a> 16\/06\/2016<\/p>\nAutore Francesco Lamendola<\/strong><\/span><\/p>\nUn giorno, forse, sar\u00e0 possibile fare l\u2019inventario dei danni apocalittici che Benedetto Croce ha inferto alla cultura italiana; e allora, finalmente, apparir\u00e0 non solo la modestia speculativa e storiografica del personaggio, troppo a lungo osannato e riverito come uno dei maggiori filosofi del ventesimo secolo, ma anche il bassissimo livello etico e professionale degli innumerevoli “crociani” che hanno svolazzato intorno al venerato Maestro, che gli hanno baciato la sacra pantofola, che ne hanno rivendicato con fierezza l\u2019eredit\u00e0 e il lascito morale, e che, nel frattempo, il che non guasta, si sono impossessati delle principali cattedre universitarie, degli istituti di ricerca, delle case editrici, delle riviste prestigiose, e ogni altro spazio, reale e virtuale, immaginabile e inimmaginabile, di potere culturale esistente in Italia.<\/span><\/p>\nDanni pi\u00f9 grandi del\u2019idealismo crociamo, ne ha fatti solo la cultura marxista; ma bisogna tener presente che il marxismo \u00e8 una filiazione dell\u2019idealismo (hegeliano), cos\u00ec come il comunismo \u00e8 una filiazione del liberalismo; per cui bisogna mettere sul conto di don Benedetto non soltanto i danni che lui personalmente ha provocato, anche sul piano del nepotismo culturale e del sultanismo intellettuale, ma anche quelli che hanno causato i suoi legittimi nipoti ideologici, i mille e mille professorini marxisti, i quali hanno affollato (e ammorbato) l\u2019aria, nei decenni fra il 1945 e il 1990 circa; Gramsci e il gramscismo, per esempio, vanno addebitati legittimamente sul conto di don Benedetto, perch\u00e9 ogni maestro ha, in definitiva, i discepoli che si merita (proprio come Ernesto Buonaiuti ebbe Ambrogio Donini).<\/span><\/p>\nPrendiamo il caso di Carlo Dionisotti, noto filologo e saggista torinese (1908-1998), il pi\u00f9 “inglese” dei nostri critici letterari (fece in Gran Bretagna buona parte della sua carriera universitaria), e della sua forse troppo celebrata raccolta di saggi Geografia e storia della letteratura italiana<\/em>, del 1967, pubblicata con quella casa editrice Einaudi, con la quale aveva sempre avuto un rapporto privilegiato, prima e dopo la partenza per Oxford e Londra, anche se, poi, se ne era parzialmente distaccato per l\u2019impronta troppo decisamente marxista dei suoi compagni di allora, Carlo Salinari e Carlo Muscetta. In essa, egli se la prende con la tendenza storiografica “unitaria” circa lo sviluppo della letteratura italiana, il cui padre nobile \u00e8 stato Francesco De Sanctis, per affermare invece, sulla scia di Benedetto Croce, che non vi \u00e8 stata una linea di sviluppo della letteratura italiana, e della stessa storia italiana, verso l\u2019unit\u00e0 nazionale, ma vi sono state numerose linee di sviluppo, basate sulle tradizioni locali e municipali, e che la tendenza verso l\u2019unit\u00e0 \u00e8 stata tutt\u2019altro che lineare, poich\u00e9 ad essa si sono accompagnate resistenze e “riflussi” continui in direzione opposta.<\/span><\/p>\nAl di l\u00e0 del merito della specifica questione storico-letteraria (che qui non c\u2019interessa), quel che colpisce, fin dalle prime righe del saggio omonimo, che d\u00e0 il titolo all\u2019intera raccolta, \u00e8 il tono moralistico, apodittico, arrogante, con il quale l\u2019Autore si pone nei confronti della questione e soprattutto nei confronti dei sostenitori di interpretazioni storiografiche diverse dalla sua: tono in cui ben si riconosce la superbia intellettuale del Croce e del crocianesimo, e in cui si riflettono, come in uno specchio, la boria e la saccenteria tipiche del neomarxismo di matrice gramsciana e del semi-marxismo di matrice gobettiana, entrambi poi santificati dal mito dell\u2019antifascismo e, pertanto, passati integralmente, se possibile con un sovrappi\u00f9 di supponenza e di derisione degli “altri”, nello pseudo-marxismo trionfante e velleitario degli anni Sessanta e Settanta, cos\u00ec bene individuato da Vittoria Ronchey nel romanzo Figlioli miei, marxisti immaginari<\/em>, del 1975.<\/span><\/p>\nVale la pena di riportare quelle prime righe, affinch\u00e9 il lettore onesto e spassionato possa farsene un\u2019idea personale (da: Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana<\/em>, Torino, Einaudi, 1967, pp. 25-26; saggio, peraltro, apparso molti anni prima su Italian Studies<\/em>, vol. VI, Cambridge, 1951, p. 70):<\/span><\/p>\nPoco prima dell\u2019ultima guerra torn\u00f2 in discussione fra studiosi italiani il quesito se e fino a quel segno la storia d\u2019Italia potesse dirsi unitaria. In take occasione Benedetto Croce pubblic\u00f2 nei “Proceedings of the British Academy” un saggio in cui ribadiva la tesi, coerente al suo pensiero, ma splendidamente ardita in quella sede e a quella data (1936), che di una storia d\u2019Italia anteriore al processo unitario del Risorgimento non fosse il caso di parlare, risolvendosi essa nella varia storia delle singole unit\u00e0 politiche, regionali o municipali o altramente [sic] costituite, in cui l\u2019Italia per secoli era stata divisa.<\/em><\/span><\/p>\nLa tesi del Croce si abbatteva sul tentativo che la storiografia e pubblicistica cortigiana veniva [sic; venivano] allora facendo di ritrovare patenti di nobilt\u00e0 romana e di ascendenze cesaree al nazionalismo imperialistico e di l\u00ec a poco razzistico che si era affermato in Italia al potere. Ma essa anche e principalmente mirava a un pi\u00f9 decente obiettivo: si opponeva cio\u00e8 alla tesi, sostenuta pur da studiosi competenti e disinteressati, che sotto la diversit\u00e0 innegabile, e divergenza a volte, degli eventi politici verificatisi in Italia durante il Medioevo e l\u2019Et\u00e0 moderna, fosse tuttavia riconoscibile la linea maestra di una tradizione e insieme di un\u2019aspirazione unitaria, di un\u2019unit\u00e0 civile volta a volta e progressivamente fondata sulla comunit\u00e0 dei costumi, degli interessi economici, delle istituzioni giuridiche, del linguaggio, delle lettere, delle arti, tale insomma che senza di essa inesplicabile sarebbe rimasta l\u2019unificazione politica finalmente attuata dal Risorgimento\u2026<\/em><\/span><\/p>\nApprendiamo cos\u00ec, per prima cosa, che aver negato l\u2019esistenza di una storia d\u2019Italia sui Proceedings of the British Academy<\/em>, e questo nel 1936, cio\u00e8 quando la Gran Bretagna minacciava di “strozzare” l\u2019impresa etiopica semplicemente chiudendo il Canale di Suez, e mentre la Societ\u00e0 delle Nazioni procedeva alle sanzioni contro l\u2019Italia, sarebbe stato, da parte di don Benedetto, un atto, addirittura, di “splendido ardimento”: e questo a proposito del peso e del valore delle parole. Va bene che l\u2019Italia antifascista doveva gonfiare al massimo i propri meriti resistenziali contro la ventennale dittatura, per cui andava bene praticamente tutto: dal trasformare il vile attentato di Via Rasella in un magnifico esempio di virt\u00f9 patriottiche (con buona pace delle vittime della rappresaglia annunciata), al fare di qualche scaramuccia contro le scarsissime truppe tedesche, in ripiegamento ordinato e programmato dal capoluogo partenopeo, niente di meno che le quattro giornate di Napoli<\/em> (peccato che nessuno, fuori di Napoli e fuori d\u2019Italia, ne abbia mai sentito parlare: nemmeno i pochi soldati tedeschi che erano stati l\u00e0 dal 27 al 30 settembre del 1943, cio\u00e8 proprio durane quelle fantomatiche “giornate” (cfr. il nostro articolo: Ma sono davvero esistite le “quattro giornate di Napoli”?<\/em>, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 03\/05\/2010). E cos\u00ec nell\u2019ambito della cultura: non avendo particolari episodi di coraggio da far valere da parte degli intellettuali italiani (semmai il contrario, visto che la quasi totalit\u00e0 dei docenti universitari giurarono fedelt\u00e0 al fascismo, leggi razziali comprese), e avendo, semmai, molto da far dimenticare sui loro trascorsi fascisti, e sulle loro carriere e poltrone coltivate durante il Ventennio, ci si \u00e8 inventati persino una “emigrazione interna”, di cui don Benedetto \u2013 che, dal suo feudi universitario di Napoli, controllava il 90% della cultura filosofica in Italia \u2013 sarebbe stato il massimo esponente: cosa che non gli imped\u00ec di scrivere e pubblicare tutto ci\u00f2 che volle, avendo una intera casa editrice a sua disposizione (la Laterza di Bari), cosa che ad un mesto e perseguitato “emigrato interno” sembra si attagli in maniera un po\u2019 faticosa, per non dire francamente inverosimile. Da un “emigrato interno” ci si aspetterebbe, semmai, un silenzio forzato, doloroso, carico di sacrificio: non un profluvio di pubblicazioni, su riviste specializzate italiane ed estere. Ma sappiamo bene quale fosse il vizietto pi\u00f9 evidente di don Benedetto: il rancore vendicativo, intriso di moralismo a buon mercato, nei confronti dei suoi avversari ed ex amici (giacch\u00e9 non perdonava i “tradimenti”): valga per tutti il suo scritto Il caso Gentile e la disonest\u00e0 nella vita universitaria italiana,<\/em> dal titolo pi\u00f9 che eloquente, che, risalendo al 1909, cio\u00e8 a molto prima della dittatura, la dice lunga sul “liberalismo” di don Benedetto, quando si trattava di sgomitare per affermare, ad ogni costo e con qualsiasi mezzo, il proprio dominio assoluto nell\u2019ambito degli studi filosofici nostrani.<\/span><\/p>\nMa veniamo al nocciolo della questione: e consideriamo l\u2019affermazione di Dionisotti, riferita alla tesi storiografica crociana “antiunitaria”: Ma essa anche e principalmente mirava a un pi\u00f9 decente obiettivo\u2026<\/em> Ecco, questa \u00e8 una di quelle frasi che dicono tutto, che rivelano un mondo, che tradiscono una intera concezione della cultura, del pensiero e della storia: una concezione inquinata di moralismo a un tanto il chilo, somministrato graziosamente da chi si sente pi\u00f9 in alto dei suoi avversari, infinitamente pi\u00f9 in alto, e, da quelle sublimi altezze, lascia cadere poche gocce del suo disprezzo su di essi, certo che saranno pi\u00f9 che sufficienti a lasciarlo confuso, svergognato, annichilito. Ma essa anche e principalmente mirava a un pi\u00f9 decente obiettivo<\/em>: come dire che, nella storiografia e nel pensiero, esistono due generi di obiettivi, quelli “decenti” (categoria, si badi, estetico-morale) e quelli “indecenti”. Ora, qual \u00e8 il modo di distinguerli? Semplice: sono “decenti” quelli perseguiti, in perfetta onest\u00e0 intellettuale, da chi scrive; sono “indecenti” quelli di coloro che egli si accinge a confutare. Insomma, giudice e pubblico ministero sono la stessa persona: lui accusa, lui giudica: bisogna solamente credergli sulla parola. Ci sarebbe da ridere, se questa trista prassi non fosse invalsa, nella cultura italiana, per tutti gli anni del grigio, opprimente, borioso dominio della cultura politicamente corretta, cio\u00e8 “antifascista”: per circa mezzo secolo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, essa si \u00e8 caratterizzata come la cultura di Maramaldo: sempre pronta ad accanirsi contro i dissenzienti, in cento contro uno, dovunque, dalle cattedre universitarie ai salotti televisivi; sempre pronta a isolare, ridicolizzare, criminalizzare le tesi di un nemico gi\u00e0 morto, o agonizzante (la cultura fascista, nella quale, peraltro, lorsignori avevano brillantemente militato e fatto carriera, prima del 25 luglio 1943), e tutta tesa, intanto, a coprire, a minimizzare, a passare sotto i silenzio i crimini dei vincitori, dalla “democratica” bomba atomica su Hiroshima, alle “necessarie” purghe staliniane, che, rafforzando l\u2019Unione Sovietica (?), avevano gettato le premesse per la vittoria nella gloriosa crociata della Civilt\u00e0 contro la Barbarie nazifascista.<\/span><\/p>\nMa veniamo all\u2019accusa di “cortigianeria” della cultura italiana del Ventennio e alla smania di ritrovare “patenti di nobilt\u00e0” romane, cesaree, eccetera, per dare alimento all\u2019imperialismo (fascista) e, chiss\u00e0 perch\u00e9, al razzismo (bench\u00e9 tutti sappiano che le leggi razziali arrivarono solo nel 1938, essenzialmente per ragioni di politica estera, dunque ben sedici anni dopo che il fascismo era andato al potere). Pu\u00f2 darsi, anzi, ammettiamo senz\u2019altro, che una parte della cultura del Ventennio si sia affannata a ricercare simili “patenti”: non tutta, in ogni caso, e, di certo, non la pi\u00f9 significativa o la pi\u00f9 seria. Ammettiamolo, dunque: \u00e8 chiaro, tuttavia, che, per capire un certo fenomeno, bisogna inscriverlo nel suo contesto storico-culturale. Il nazionalismo italiano (che non era tutt\u2019uno col fascismo, tanto \u00e8 vero che i due movimenti rimasero distinti, anche se convergenti, fin dopo il 1919) “doveva” fare, a tappe forzate, quel che il nazionalismo delle altre maggiori nazioni occidentali aveva avuto agio di fare nel corso di secoli: acquisire delle patenti di nobilt\u00e0 \u2014 l\u2019espressione \u00e8 sostanzialmente esatta \u2014 per alimentare le rispettive ambizioni imperiali. Forse che non avevano fatto la stessa cosa la Francia, la Gran Bretagna, la Germania, la Russia, e, pi\u00f9 recentemente, gli Stati Uniti e il Giappone? L\u2019Italia stava facendo quel che avevano fatto tutti gli altri; solo che lo stava facendo “fuori tempo massimo”, per cui lo fece in maniera affrettata, quasi convulsa. Anche la conquista dell\u2019Etiopia, sia detto fra parentesi, rientra in questa cornice: e solo cos\u00ec si spiega che la Francia e la Gran Bretagna, le due massime potenze coloniali al mondo, le quali, non paghe dei loro immensi imperi, si erano ulteriormente impinguate col bottino delle colonie tedesche e dei possedimenti ottomani (ma adottando la somma ipocrisia di chiamare “mandati fiduciari” i nuovi possedimenti), nel 1935-36 si presero il lusso di capeggiare le sanzioni contro l\u2019Italia, rea di aver voluto conquistare l\u2019ultimo lembo del continente africano rimasto immune dalle loro conquiste. Pertanto, secondo noi, una cortigianeria pi\u00f9 abietta di quella di chi, in epoca fascista, cerc\u00f2 di nobilitare l\u2019imperialismo italiano, \u00e8 stata quella di quanti, dopo la caduta del fascismo, non hanno saputo far di meglio che denigrare le aspirazioni di grandezza della loro Patria, e voltarono la testa dall\u2019altra parte, allorch\u00e9 350.000 connazionali furono costretti a fuggire dalla Venezia Giulia\u2026<\/span><\/p>\n","protected":false},"excerpt":{"rendered":"fonte fides-et-ratio.it 16\/06\/2016 Autore Francesco Lamendola Un giorno, forse, sar\u00e0 possibile fare l\u2019inventario dei danni apocalittici che Benedetto Croce ha […]<\/p>\n","protected":false},"author":1,"featured_media":5333,"comment_status":"closed","ping_status":"closed","sticky":false,"template":"","format":"standard","meta":{"footnotes":""},"categories":[79],"tags":[723,50],"avopt_banners_inside_post":true,"avopt_banners_on_page":true,"av_copy_from":"","av_sharing_message":"","av_sharing_allowed":true,"av_sharing_on":{"fb":[],"tw":[]},"av_allow_affiliate_banner":false,"av_allow_affiliate_multi_banner":false,"av_post_rating":true,"av_have_post_rating_value":false,"spellchecker_performed_today":false,"yoast_head":"\n
La storiografia crociana vorrebbe essere decente, ma \u00e8 soltanto arrogante - San Michele Arcangelo<\/title>\n \n \n \n \n \n \n \n \n \n \n\t \n\t \n\t \n \n \n \n \n\t \n\t \n\t \n