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3ª parte - Cap. 03. L’ULTIMA CENA E LA PASSIONE DEL GETSEMANI COMMENTATA DA GESÙ.
È tardi? No, che non è tardi. Già gli armati vengono a questa volta? Non importa. Lo so che Tu ti appresti ad esser mite. Sei in errore. Una volta ti avevo insegnato a trionfare nella vita. Non hai voluto ascoltarmi e Tu vedi che sei un vinto. Ora ascoltami. Ora che ti insegno a trionfare dalla Morte. Sii Re e Dio. Non hai armi? Non milizie? Non ricchezze?
30Dopo aver cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
46Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».
3.1 Gesù: ‘Padre, Padre, perché mi hai abbandonato?’. Abbandonato anche da Dio perché su di me erano i delitti che m’ero addossato… sommerso sotto tutto il fango dei vostri peccati…’.
Giovanni aveva terminato il brano precedentemente citato del suo vangelo1 riferendosi a Giuda così: ‘Egli, dunque, preso il boccone, uscì subito. Ed era notte’.
Niente è casuale, anche di quello che sembrerebbe privo di importanza, nelle parole di Giovanni. A prima vista, quel ‘Ed era notte…’, parrebbe una semplice annotazione temporale, per meglio collocare quegli avvenimenti in un ben preciso arco giornaliero: la tarda serata!
Ed è certamente così. Ma quel ‘era notte’ in Giovanni sta anche a significare una cosa ancora più profonda.
Giuda ingolla il boccone grasso e succulento, si ricorda che deve ‘sbrigarsi’ ed esce subito, perché - da quell’istante in cui egli decide che è ora di farla finita - comincia ‘la notte’ del Principe delle Tenebre, quella durante la quale – in un crescendo sempre più drammatico – gli avvenimenti sarebbero precipitati e l’Uomo-Dio, avvertendo sempre di più dentro di sé l’abbandono del Padre, si sarebbe avvicinato alla Passione vivendola solo da Uomo, perché come Uomo la soffrisse interamente.
Ho già spiegato come in Gesù coesistessero entrambe le nature, di Uomo e di Dio.
La Redenzione avrebbe potuto essere guadagnata solo grazie al Sacrificio di un Dio, perché per piegare la Giustizia offesa di Dio Padre e perdonare la quantità immane di peccati passati, presenti e futuri dell’Umanità, riaprendo all’uomo decaduto le porte del Paradiso, non poteva certo bastare – sul piano della ‘qualità’ della sofferenza – il sacrificio di un ‘uomo’ (e tanto meno di un angelo – essere incorporeo) per quanto Santo fosse. Infatti non fu chiesto neanche a Maria SS., che pure era seconda solo a Dio.
Se però il Dio che era in Gesù, cioè il Verbo, purissimo Spirito, non poteva patire per le sofferenze fisiche del Cristo, poteva invece ‘soffrire’ per quelle morali e soprattutto quelle spirituali che derivavano dalla contemplazione – nei momenti espiatori cruciali – dei peccati dell’Umanità. E quest’ultima era ben una ‘sofferenza’ da Dio.
Quando noi parliamo della ‘sofferenza’ di Dio, ci esprimiamo con una terminologia antropologica famigliare al nostro modo di ragionare ed ai nostri sentimenti, ma in realtà noi non possiamo riuscire a concepire cosa significhi ‘sofferenza’ per Dio, come neanche – al di là del fatto che Egli sia Essenza Spirituale – riusciamo a comprendere che cosa sia realmente Dio.
Per Gesù Uomo-Dio era sempre stata fondamentale l’unione spirituale con il Padre.
Lo vediamo, nei Vangeli canonici, anche in quel suo frequente bisogno – Egli che pur era Dio-Verbo – di ritirarsi in preghiera solitaria col Padre, perché la preghiera è ‘unione’ ed è l’unione con il Padre quella che dà forza. Poco si medita sul Gesù mistico ma leggendo le spiegazioni di Maria Valtorta sui suoi colloqui con Gesù è anche più facile capire che cosa erano per Gesù-Uomo questi Suoi colloqui col Padre.
Nella Passione, perdendo il ‘contatto’ con Dio-Padre, l’Uomo-Dio si sarebbe sentito del tutto solo, privo di quella forza soprannaturale, e – come Uomo – avrebbe sofferto anche moralmente e spiritualmente bevendo sino in fondo l’amaro calice.
Per dare un’idea, una delle ragioni della sofferenza dei dannati – che pur odiano se stessi per i peccati compiuti, odiano Satana che li ha indotti a compierli, odiano gli uomini in genere che essi vorrebbero dannati come loro - è proprio il sentirsi ‘abbandonati’, o meglio, recisi da Dio: una insopportabile privazione, perché è ‘assoluta’ ed eterna, senza cioè speranza di cambiamento.
È forse questo - potremmo quasi dire - il senso di desolazione delle parole che Gesù avrebbe successivamente esclamato sulla croce, in quella che sarebbe stata una invocazione struggente e disperata: ‘Padre, Padre, perché mi hai abbandonato…?!’.
Solo chi si sente realmente abbandonato, divinamente, avrebbe potuto prorompere in una invocazione del genere che certo deve aver fatto 'stringere il cuore' al Padre.
Ma cosa dire di quell’abbandono se non lasciarlo fare (i grassetti sono miei) direttamente al Gesù che parla a Maria Valtorta, anima-vittima anche lei?
♦
10 febbraio 1944.2
Dice Gesù:
«Ed ora vieni. Per quanto tu sia questa sera come uno prossimo a spirare, vieni, ché Io ti conduca verso le mie sofferenze. Lungo sarà il cammino che dovremo fare insieme, perché nessun dolore mi fu risparmiato. Non dolore della carne, non della mente, non del cuore, non dello spirito. Tutti li ho assaggiati, di tutti mi sono nutrito, di tutti dissetato, fino a morirne.
Se tu appoggiassi sul mio labbro la tua bocca, sentiresti che essa ancora conserva l'amarezza di tanto dolore. Se tu potessi vedere la mia Umanità nella sua veste, ora fulgida, vedresti che quel fulgore emana dalle mille e mille ferite che coprirono con una veste di porpora viva le mie membra lacerate, dissanguate, percosse, trafitte per amore di voi.
Ora è fulgida la mia Umanità. Ma fu un giorno che fu simile a quella d'un lebbroso, tanto era percossa ed umiliata. L'Uomo Dio, che aveva in Sé la perfezione della bellezza fisica, perché Figlio di Dio e della Donna senza macchia, apparve allora, agli occhi di chi lo guardava con amore, con curiosità o con occhio sprezzante, brutto: un "verme", come dice Davide, l'obbrobrio degli uomini, il rifiuto della plebe.
L'amore per il Padre e per le creature del Padre mio mi ha portato ad abbandonare il mio corpo a chi mi percoteva, ad offrire il mio volto a chi mi schiaffeggiava e sputacchiava, a chi credeva fare opera meritoria strappandomi le chiome, svellendomi la barba, trapassandomi la testa con le spine, rendendo complice anche la terra e i suoi frutti dei tormenti inflitti al suo Salvatore, slogandomi le membra, scoprendo le mie ossa, strappandomi le vesti e dando così alla mia purezza la più grande delle torture, configgendomi ad un legno e innalzandomi come agnello sgozzato sugli uncini di un beccaio, e abbaiando, intorno alla mia agonia, come torma di lupi famelici che l'odore del sangue fa ancora più feroci.
Accusato, condannato, ucciso. Tradito, rinnegato, venduto.
Abbandonato anche da Dio perché su Me erano i delitti che m'ero addossato. Reso più povero del mendico derubato da briganti, perché non mi fu lasciata neppur la veste per coprire la mia livida nudità di martire. Non risparmiato neppur oltre la morte dall'insulto di una ferita e dalle calunnie dei nemici.
Sommerso sotto il fango di tutti i vostri peccati, precipitato sino in fondo al buio del dolore, senza più luce del Cielo che rispondesse al mio sguardo morente, né voce divina che rispondesse al mio invocare estremo.
Isaia la dice la ragione di tanto dolore: "Veramente Egli ha preso su di Sé i nostri mali ed ha portato i nostri dolori".
I nostri dolori! Sì, per voi li ho portati! Per sollevare i vostri, per addolcirli, per annullarli, se mi foste stati fedeli. Ma non avete voluto esserlo. E che ne ho avuto? Mi avete "guardato come un lebbroso, un percosso da Dio".
Sì, era su Me la lebbra dei vostri peccati infiniti, era su Me come una veste di penitenza, come un cilicio; ma come non avete visto tralucere Dio, nella sua infinita carità, da quella veste indossata per voi sulla sua santità?
"Piagato per le nostre iniquità, trafitto per le nostre scelleratezze" dice Isaia, che coi suoi occhi profetici vedeva il Figlio dell'uomo divenuto tutta una lividura per sanare quelle degli uomini. E fossero state unicamente ferite alla mia carne!
Ma ciò che più m'avete ferito fu il sentimento e lo spirito. Dell'uno e dell'altro avete fatto zimbello e bersaglio; e mi avete colpito nell'amicizia, che avevo posto in voi, attraverso Giuda; nella fedeltà, che speravo da voi, attraverso Pietro che rinnega; nella riconoscenza per i miei benefici, attraverso coloro che mi gridavano: "Muori!", dopo che Io li avevo risorti da tante malattie; attraverso l'amore, per lo strazio inflitto a mia Madre; attraverso alla religione, dichiarandomi bestemmiatore di Dio, Io che per lo zelo della causa di Dio m'ero messo nelle mani dell'uomo incarnandomi, patendo per tutta la vita e abbandonandomi alla ferocia umana senza dire parola o lamento.
Sarebbe bastato un volgere di occhi per incenerire accusatori, giudici e carnefici. Ma ero venuto volontariamente per compiere il sacrificio, e come agnello, perché ero l'Agnello di Dio e lo sono in eterno, mi sono lasciato condurre per essere spogliato e ucciso e per fare della mia Carne la vostra Vita.
Quando fui innalzato ero già consumato da patimenti senza nome, con tutti i nomi.
Ho cominciato a morire a Betlemme nel vedere la luce della Terra, così angosciosamente diversa per Me che ero il Vivente del Cielo.
Ho continuato a morire nella povertà, nell'esilio, nella fuga, nel lavoro, nell'incomprensione, nella fatica, nel tradimento, negli affetti strappati, nelle torture, nelle menzogne, nelle bestemmie. Questo ha dato l'uomo a Me che venivo a riunirlo con Dio!
Maria, guarda il tuo Salvatore.
Non è bianco nella veste e biondo nel capo. Non ha lo sguardo di zaffiro che tu gli conosci. Il suo vestito è rosso di sangue, è lacero e coperto di immondezze e di sputi. Il suo volto è tumefatto e stravolto, il suo sguardo velato dal sangue e dal pianto, e ti guarda attraverso la crosta di questi e della polvere che appesantiscono le palpebre.
Le mie mani - lo vedi? - sono già tutte una piaga e attendono la piaga ultima.
Guarda, piccolo Giovanni, come mi guardò tuo fratello Giovanni. Dietro il mio andare restano impronte sanguigne. Il sudore dilava il sangue che geme dalle lacerazioni dei flagelli, che ancor resta dall'agonia dell'Orto. La parola esce, nell'anelito dell'affanno di un cuore già morente per tortura d'ogni nome, dalle labbra arse e contuse.
D'ora in poi mi vedrai sovente così.
Sono il Re del Dolore e verrò a parlarti del dolore mio con la mia veste regale.
Seguimi, nonostante la tua agonia.
Saprò, poiché sono il Pietoso, mettere davanti alle tue labbra, attossicate dal mio dolore, anche il miele profumato di più serene contemplazioni. Ma devi ancor più preferire queste di sangue, perché per esse tu hai la Vita e con esse porterai altri alla Vita. Bacia la mia mano sanguinosa e vigila meditando su Me Redentore».
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Ma riprendendo il discorso iniziale dell’Ultima Cena, dopo quel ‘Ed era notte’ con cui Giovanni aveva commentato nel suo Vangelo l’uscita di Giuda dal Cenacolo, egli aveva continuato il racconto3 concludendolo, nel suo Cap. 17, con le seguenti parole di Gesù:
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«Padre, è giunta l’ora, glorifica tuo figlio, affinché il Figlio tuo glorifichi te, come tu gli hai dato potere su tutti gli uomini, affinché egli doni la vita eterna a coloro che gli hai dato.
La vita eterna è questa, che conoscano te, solo vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo.
Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l’opera che mi hai dato da fare; ora, Padre, glorifica me nel tuo cospetto, con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse.
Ho manifestato il tuo nome agli uomini, che mi hai dato, scelti di mezzo al mondo: erano tuoi e li hai donati a me, ed essi hanno osservato la tua parola. Ora hanno conosciuto che tutto quello che mi hai dato viene da te, perché le parole che desti a me le ho date a loro; essi le hanno accolte e veramente hanno riconosciuto che io sono uscito da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che mi hai donato, perché sono tuoi.
Ogni cosa mia è tua e ogni cosa tua è mia. In essi io sono stato glorificato.
Ormai io non sono più nel mondo, ma essi restano nel mondo, mentre io vengo a te.
Padre santo, custodiscili nel nome tuo che mi hai dato, affinché siano una cosa sola come noi.
Finché ero con essi, li conservavo nel tuo nome che tu m’hai dato, li ho custoditi e nessuno di loro è perito, tranne il figlio della perdizione, affinché si adempisse la Scrittura.
Ma ora io vengo a te, e questo dico mentre sono ancora nel mondo, affinché abbiano la pienezza della mia gioia in se stessi.
Io ho comunicato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come neanch’io sono del mondo.
Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che tu li guardi dal maligno.
Essi non sono del mondo, come neppur io sono del mondo.
Santificali per la verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato nel mondo me, anch’io ho mandato nel mondo essi. E per loro io santifico me stesso, affinché essi pure siano santificati per la verità.
Né soltanto per questi prego, ma prego anche per quelli che crederanno in me per la loro parola; affinché siano tutti una cosa sola come tu sei in me, o Padre, ed io in te; che siano anch’essi una sola cosa in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
La gloria che tu mi desti io l’ho data loro, affinché siano una sola cosa, come noi siamo una cosa sola, io in essi e tu in me, affinché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e li hai amati, come hai amato me.
Padre, io voglio che là dove sono io, siano con me pure quelli che tu m’hai dato, affinché contemplino la gloria che tu mi hai dato, perché tu mi hai amato prima della creazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto e questi hanno riconosciuto che tu mi hai mandato. Ed ho fatto conoscere a loro il tuo nome e lo farò conoscere ancora, affinché l’amore col quale hai amato me sia in essi ed io in loro».
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Maria Valtorta - che ha assistito alla Cena e tutto trascritto in versione ‘integrale’ - così poi conclude la sua visione: 4
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(…)
Gli apostoli lacrimano più o meno palesemente e rumorosamente. Per ultimo cantano un inno. Gesù li benedice. Poi ordina: «Mettiamoci i mantelli, ora. E andiamo. Andrea, di' al capo di casa di lasciare tutto così, per mio volere. Domani... vi farà piacere rivedere questo luogo».
Gesù lo guarda. Pare benedire le pareti, i mobili, tutto. Poi si ammantella e si avvia, seguito dai discepoli.
Al suo fianco è Giovanni, al quale si appoggia. «Non saluti la Madre?», gli chiede il figlio di Zebedeo.
«No. È tutto già fatto. Fate, anzi, piano».
Simone, che ha acceso una torcia alla lumiera, illumina l'ampio corridoio che va alla porta. Pietro apre cauto il portone ed escono tutti nella via e poi, facendo giocare un ordigno, chiudono dal di fuori. E si pongono in cammino.
3.2 I quattro ammaestramenti principali dell’episodio della Cena.
Nelle ‘riflessioni’ precedenti vi ho commentato, a modo mio, l’Ultima Cena avendo anche avuto come ‘falsariga’ il Vangelo, ma non considerereste un privilegio sentire ora il commento sulla stessa del Gesù valtortiano?
Lo troviamo nell’Opera, a conclusione di questa particolare visione data da Gesù alla mistica.5
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[17 febbraio 1944]
Dice Gesù:
«Dall'episodio della Cena, oltre la considerazione della carità di un Dio che si fa Cibo agli uomini, risaltano quattro ammaestramenti principali.
Primo: la necessità per tutti i figli di Dio di ubbidire alla Legge.
La Legge diceva che si doveva per Pasqua consumare l'agnello secondo il rituale dato dall'Altissimo a Mosè, ed Io, Figlio vero del Dio vero, non mi sono riputato, per la mia qualità divina, esente dalla Legge.
Ero sulla Terra: Uomo fra gli uomini e Maestro degli uomini. Dovevo perciò fare il mio dovere di uomo verso Dio come e meglio degli altri. I favori divini non esimono dall'ubbidienza e dallo sforzo verso una sempre maggiore santità.
Se paragonate la santità più eccelsa alla perfezione divina, la trovate sempre piena di mende, e perciò obbligata a sforzare se stessa per eliminarle e raggiungere un grado di perfezione per quanto più è possibile simile a quello di Dio.
Secondo: la potenza della preghiera di Maria.
Io ero Dio fatto Carne. Una Carne che, per essere senza macchia, possedeva la forza spirituale per signoreggiare la carne. Eppure non ricuso, anzi invoco l'aiuto della Piena di Grazia, la quale anche in quell'ora di espiazione avrebbe trovato, è vero, sul suo capo il Cielo chiuso, ma non tanto che non riuscisse a strapparne un angelo, Lei, Regina degli angeli, per il conforto del suo Figlio. Oh! non per Lei, povera Mamma! Anche Lei ha assaporato l'amaro dell'abbandono del Padre, ma per questo suo dolore offerto alla Redenzione m'ha ottenuto di potere superare l'angoscia dell'orto degli Ulivi e di portare a termine la Passione in tutta la sua multiforme asprezza, di cui ognuna era volta a lavare una forma e un mezzo di peccato.
Terzo: il dominio su se stessi e la sopportazione dell'offesa, carità sublime su tutte, la possono avere unicamente quelli che fanno vita della loro vita la legge di carità che Io avevo bandita. E non bandita solo, ma praticata realmente.
Cosa sia stato per Me aver meco alla mia tavola il mio Traditore, il dovere darmi ad esso, il dovere umiliarmi ad esso, il dovere dividere con esso il calice di rito e posare le labbra là dove egli le aveva posate, e farle posare a mia Madre, voi non potete pensare.
I vostri medici hanno discusso e discutono sulla mia rapida fine e le dànno origine in una lesione cardiaca dovuta alle percosse della flagellazione. Sì, anche per queste il mio cuore divenne malato. Ma lo era già dalla Cena. Spezzato, spezzato nello sforzo di dover subire al mio fianco il mio Traditore.
Ho cominciato a morire allora, fisicamente. Il resto non è stato che aumento della già esistente agonia. Quanto ho potuto fare l'ho fatto perché ero uno con la Carità. Anche nell'ora in cui Dio-Carità si ritirava da Me, ho saputo esser carità, perché ero vissuto, nei miei trentatré anni, di carità. Non si può giungere ad una perfezione, quale si richiede per perdonare e sopportare il nostro offensore, se non si ha l'abito della carità. Io l'avevo, e ho potuto perdonare e sopportare questo capolavoro di Offensore che fu Giuda.
Quarto: il Sacramento opera quanto più uno è degno di riceverlo.
Se ne è fatto degno con una costante volontà, che spezza la carne e fa signore lo spirito, vincendo le concupiscenze, piegando l'essere alle virtù, tendendolo come arco verso la perfezione delle virtù e soprattutto della carità. Perché, quando uno ama, tende a far lieto chi ama.
Giovanni, che mi amava come nessuno e che era puro, ebbe dal Sacramento il massimo della trasformazione.
Cominciò da quel momento ad essere l'aquila, a cui è famigliare e facile l'altezza nel Cielo di Dio e l'affissare il Sole eterno. Ma guai a chi riceve il Sacramento senza esserne affatto degno, ma anzi avendo accresciuto la sua sempre umana indegnità con le colpe mortali. Allora esso diviene non germe di preservazione e di vita ma di corruzione e di morte. Morte dello spirito e putrefazione della carne, per cui essa "crepa", come dice Pietro di quella di Giuda. Non sparge il sangue, liquido sempre vitale e bello nella sua porpora, ma le sue interiora, nere di tutte le libidini, marciume che si riversa fuori dalla carne marcita come da carogna di animale immondo, oggetto di ribrezzo per i passanti.
La morte del profanatore del Sacramento è sempre la morte di un disperato, e perciò non conosce il placido trapasso proprio di chi è in grazia, né l'eroico trapasso della vittima che soffre acutamente ma con lo sguardo fisso al Cielo e l'anima sicura della pace.
La morte del disperato è atroce di contorsioni e di terrori, è una convulsione orrenda dell'anima già ghermita dalla mano di Satana, che la strozza per svellerla dalla carne e che la soffoca col suo nauseabondo fiato. Questa la differenza fra chi trapassa all'altra vita dopo essersi nutrito in essa di carità, fede, speranza e d'ogni altra virtù e dottrina celeste e del Pane angelico che l'accompagna coi suoi frutti - meglio se con la sua reale presenza - nel viaggio estremo, e chi trapassa dopo una vita di bruto con morte da bruto che la Grazia e il Sacramento non confortano.
La prima è la serena fine del santo, a cui la morte apre il Regno eterno. La seconda è la spaventosa caduta del dannato, che si sente precipitare nella morte eterna e conosce in un attimo ciò che ha voluto perdere, né più può riparare. Per uno acquisto, per l'altro spogliamento. Per uno gioia, per l'altro terrore.
Questo è quanto vi date a seconda del vostro credere ed amare, o non credere e deridere il dono mio. E questo è l'insegnamento di questa contemplazione».
3.3 L’ora del Getsemani.
Il Gruppo apostolico – uscito nottetempo dal Cenacolo - si pone dunque in cammino verso il Getsemani6 dove, nell’uliveto, Gesù affronterà quella Passione durante la quale lo stress psico-fisico lo porterà ad essudare Sangue, fenomeno ben noto in Medicina.7
Il racconto della Passione è trattato nei Vangeli in maniera essenziale ed ogni evangelista – pur nella coincidenza sostanziale del racconto – aggiunge propri particolari che ne completano il quadro.
Sono tuttavia tutti particolari di cose viste dall’esterno.
Cosa direste se – per saperne di più, non per curiosità ma per ‘compartecipazione’ – l’episodio della Passione nel Getsemani provassimo a sentirla raccontata ‘dall’interno’, cioè direttamente da Gesù?
Dice infatti Gesù a Maria Valtorta:
♦
6 luglio 1944
Dice Gesù:8
«Vedi, anima mia, che avevo molta ragione di dire: “La conoscenza del mio tormento del Getsemani non sarebbe capita e diverrebbe scandalo”?
La gente non ammette il Demonio. Quelli che l’ammettono non ammettono che il Demonio abbia potuto vessare l’anima di Cristo sino al punto di far sudare sangue. Ma tu, che hai avuto un briciolo di questa tentazione, puoi comprendere.
Parliamo dunque insieme.
Mi hai chiesto: “Quante sono le agonie del Getsemani che mi dai?”.
Oh! tante! Non per piacere di tormentarti. Unicamente per bontà di Maestro e Sposo.
Non potrei su te, piccola sposa, abbattere tutto insieme il cumulo di desolazione che mi accasciò quella sera e che nessuno intuì, che nessuno comprese fuorché mia Madre e il mio Angelo. Ne morresti pazza. E allora ti do adesso un briciolo, domani un altro, di modo da farti gustare tutto il mio cibo e di ottenere dal tuo soffrire il massimo di compassione per il tuo dolente Sposo e di redenzione per i tuoi fratelli.
Ecco perché ti do tante ore di Getsemani. Uniscile e, come il mosaicista unendo le tessere piano piano vede formarsi il quadro completo, tu, riunendo nel tuo pensiero il ricordo delle diverse ore, vedrai l’Agonia vera del tuo Signore.
Rifletti come ti amo. La prima volta ti ho dato soltanto la vista della mia smania fisica. E tu, soltanto per vedermi col Volto straziato, andare e venire, alzare le braccia, torcermi le mani, piangere e abbattermi, ne hai avuta tanta pena che per poco non mi moristi.
Ti ho presentato quella tortura visibile più e più volte sinché l’hai conosciuta e l’hai potuta sopportare. Poi, volta per volta, ti ho svelato le mie tristezze. Le mie tristezze. Di uomo. Tutte le passioni dell’uomo si sono drizzate come serpi irritate, fischiando i loro diritti d’essere, ed Io le ho dovute strozzare una per una per essere libero di salire il mio Calvario.
Non tutte le passioni sono malvagie.
Te l’ho già spiegato. Io dò a questo nome il senso filosofico, non quello che voi gli date scambiando il senso col sentimento. E le passioni buone il tuo Gesù-Uomo le aveva come tutti gli uomini giusti. Ma anche le passioni buone possono divenire nemiche in certe ore, quando con la loro voce fanno catena, e catena di durissimo, fortissimo, annodatissimo acciaio, per impedirvi di compiere la volontà di Dio.
Amare la vita, dono di Dio, è dovere, tanto che chi si uccide è colpevole come e più di chi uccide, perché colui che uccide manca alla carità di prossimo ma può avere l’attenuante di una provocazione che lo dissenna, mentre chi si uccide manca contro sé stesso e contro Dio, che gli ha dato la vita perché egli la viva sino al suo richiamo.
Uccidersi è strapparsi di dosso il dono di Dio e gettarlo con urlo di maledizione sul Volto di Dio. Chi si uccide dispera di avere un Padre, un Amico, un Buono. Chi si uccide nega ogni dogma di fede e ogni asserzione di fede. Chi si uccide nega Dio. Dunque occorre aver cara la vita.
Ma come cara? Facendosi schiavi di essa? No. Amica buona la vita. Amica dell’Altra. Della Vita vera. Questa è la grande Vita. Quella è la piccola vita.
Ma come un’ancella serve e procura cibo alla sua signora, così la piccola vita serve e nutre la grande Vita, la quale raggiunge l’età perfetta attraverso le cure che la piccola vita le dà. E’ proprio questa piccola vita che vi procura la veste ornata da indossare quando divenite le Signore del Regno di Vita.
È proprio questa piccola vita che vi fortifica col pane amaro, intriso di forte aceto, delle cose di ogni giorno, e vi fa adulti e perfetti per possedere la Vita che non termina. Ecco perché occorre chiamare “cara” questa triste esistenza d’esilio e di dolore. E’ la banca in cui maturano i frutti delle ricchezze eterne.
È passabilmente buona? Lodarne il Signore. E’ cosparsa di pene? Dir “grazie” al Signore. E’ triste oltre misura? Non dir mai: “E’ troppo”. Non dir mai: “Dio è cattivo”.
L’ho detto mille volte: “il male – e le tristezze che sono se non frutto del male? Il male non viene da Dio. E’ l’uomo, il malvagio che fa soffrire”.
L’ho detto mille volte: “Dio sa finché potete soffrire e, se vede che è troppo ciò che il prossimo vi procura, interviene non soltanto aumentando la vostra forza di sopportazione, ma con conforti celesti; e quando è l’ora con spezzare i malvagi, perché non è lecito torturare oltre misura il prossimo migliore.
La vita è cara per le oneste soddisfazioni che procura: Dio non le biasima. Il lavoro Egli l’ha messo. Per punizione, ma anche per svago all’uomo colpevole. Guai se aveste a vivere nell’ozio. Da secoli la Terra sarebbe un enorme manicomio di furenti che si sbranerebbero l’un coll’altro. Lo fate già, perché ancor troppo oziate. L’onesta fatica rasserena e dà gioia e riposo sereno.
La vita è ancor più cara per gli affetti santi di cui si inflora. Dio non li biasima. Potrebbe Dio, che amore, biasimare un amore onesto? O gioia d’esser figli! E gioia d’esser padri! O gioia di trovare una compagna che genera figli al proprio nome e figli a Dio! O gioia di avere una dolce sorella, un buon fratello, e amici sinceri! No, che queste oneste dolcezze Dio non le biasima.
L’amore lo ha messo Lui, e non sulla Terra, come il lavoro, per punizione e svago del colpevole. Ma nel Terrestre Paradiso per base alla grande gioia di esser figli di Dio. “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gen. 2,18) ha detto.
Re del creato, l’uomo sarebbe stato in un deserto senza una compagna. Buoni gli animali tutti col loro re, ma troppo, sempre troppo inferiori al figlio di Dio. Buono, infinitamente buono Dio col suo figlio, ma sempre troppo superiore ad esso. L’uomo avrebbe patito la solitudine di essere ugualmente distante dal divino e dall’animale. E Dio gli diede la compagna.
Non solo. Ma dal casto amore con la stessa gli avrebbe concesso i dolci figli, perché l’uomo e la donna potessero dire la parola più dolce dopo il Nome di Dio: “Figlio mio!”, e i figli potessero dire la parola più santa dopo il nome di Dio: “Mamma!”.
Mamma! Chi dice: “mamma” prega già.
Dire: “mamma” vuol dire ringraziare Dio della sua Provvidenza, che dà una madre ai figli dell’uomo e fino ai piccoli figli delle fiere e dei domestici animali o dei volanti uccelli e fin dei muti pesci, perché l’uomo non conoscesse l’orrore di crescere solo e non cadesse per mancanza di sostegno quando ancora è troppo debole per conoscere il Bene e il Male.
Dire: “mamma” vuol dire benedire Iddio che ci fa conoscere cosa sia l’amore attraverso il bacio di una madre e le parole delle sue labbra.
Dire: “mamma” vuol dire conoscere Iddio che ci dà un riflesso del suo principale attributo, la Bontà, attraverso l’indulgenza di una madre. E conoscere Iddio vuol dire sperare, credere e amare. Vuol dire salvarsi.
Avere un fratello non è come avere, per una pianta, la pianta gemella che sostiene nelle ore di burrasca, intrecciando i rami, e che nelle ore di gioia aumenta la fioritura di essa col polline del suo amore?
Per questo ho voluto che i cristiani si chiamassero l’un l’altro fratelli, perché è giusto, dato che venite tutti da un Dio e da un sangue d’uomo, e perché è santo, perché è confortevole per coloro che non hanno fratelli di carne poter dire al vicino: “Fratello, io ti amo. Amami!”.
Avere un amico sincero non è come avere un compagno nel cammino? Andare soli è troppo triste. Quando Dio elegge alla solitudine di anima vittima, allora gli si fa compagno perché soli non si può stare senza flettere.
La vita è una strada scoscesa, sassosa, spesso interrotta da crepacci e correnti vorticose.
Aspidi e spine lacerano e mordono sull’irto sentiero. Esser soli sarebbe perire. Dio ha creato l’amicizia per questo. In due cresce la forza e il coraggio. Anche un eroe ha attimi di debolezza. Se è solo dove si appoggia? Ai rovi? Dove si afferra? Agli aspidi? Dove si adagia? Nel torrente vorticoso o nell’orrido oscuro? Ovunque troverebbe nuove ferite e nuovo pericolo.
Ma ecco l’amico. Il suo petto è appoggio, il suo braccio sostegno, il suo affetto riposo. E l’eroe riprende forza. Il camminatore cammina di nuovo sicuro.
Per valorizzare l’amicizia Io ho voluto chiamare “amici” i miei apostoli, e tanto ho apprezzato questo affetto che nell’ora del dolore ho voluto i tre più cari con Me nel Getsemani. Li ho pregati di vegliare e pregare con Me, per me… e di vederli incapaci di farlo ne ho tanto sofferto da uscirne indebolito, e perciò più suscettibile alle seduzioni sataniche. Una parola, avessi potuto scambiare una parola con degli amici desti e comprensivi del mio stato, non sarei giunto a svenarmi, prima della Tortura, nella lotta per respingere Satana.
Ma vita e affezioni non devono divenire nemiche. Mai. Se tali divengono, occorre spezzarle.
Le ho spezzate. Una per una.
Avevo già spezzato l’umano fermento di sdegno verso il Traditore. E un nervo del mio cuore s’era lacerato nello sforzo.
Ora ecco che sorgeva la paura di perdere la vita.
La vita! Avevo trentatré anni. Ero uomo in quell’ora. Ero l’Uomo. Avevo perciò l’amore vergine della vita come lo aveva Adamo nel Paradiso Terrestre. Una gioia d’esser vivo, d’esser sano, d’esser forte, bello, intelligente, amato, rispettato. Una gioia di vedere, di intendere, di poter esprimere. Una gioia di respirare l’aria pura e profumata, di udire l’arpa del vento fra gli ulivi, vedere il rio fra i sassi, e il flauto di un usignolo innamorato; di vedere splendere le stelle in cielo, tanti occhi di fuoco che guardavano Me con amore; di vedere farsi d’argento la terra per la luna così bianca e lucente che riverginizza ogni sera il mondo, e pare impossibile che sotto la sua onda di candida pace possa agire il Delitto.
E tutto questo Io dovevo perdere.
Non più vedere, non più udire, non più muovermi, non più essere sano, non più essere rispettato. Divenire l’aborto marcioso che si scansa col piede torcendo il capo con disgusto, l’aborto espulso dalla società che mi condannava per essere libera di darsi ai suoi sozzi amori.
Gli amici!... Uno mi aveva tradito. E mentre Io attendevo la morte, egli si affrettava a portarmela. Vedeva di darsi gioia con la mia morte…
Gli altri dormivano. Eppure li amavo. Avrei potuto destarli, fuggire con loro, altrove, lontano, e salvare vita e amicizia. E invece dovevo tacere e restare. Restare voleva dire perdere amici e vita. Essere un reietto, voleva dire.
La Mamma! O amore della Mamma! Invocato amore curvo sul mio dolore! Respinto amore per non farti morire del mio dolore! Amore della mia Mamma!
Sì, lo so. Ogni mio singhiozzo ti giungeva, o Santa. Ogni mio chiamarti valicava lo spazio e penetrava come spirito nella chiusa stanza dove tu, come sempre, passavi la tua notte orando, e in quella notte orando non con estasi ma con tortura d’anima. E mi interdivo di chiamarti per non farti giungere il lamento del tuo Figlio, o Madre martire che iniziavi la tua Passione, solitaria come Io solitario, nella notte del Giovedì pasquale.
Il figlio che muore fra le braccia di sua madre non muore: solo si addormenta cullato dalla ninna nanna di baci, che continuano gli angeli fino al momento che la visione di Dio smemora del desiderio di sua madre. Ma Io dovevo morire fra le braccia dei carnefici e di un patibolo, e chiudere vista e udito su schiamazzi di maledizione e gesti di minaccia.
Come ti ho amata, Madre. In quell’ora del Getsemani!
Tutto l’amore che ti avevo dato e che mi avevi dato in trentatré anni di vita erano davanti a Me e peroravano la loro causa e mi imploravano di avere pietà di essi, ricordando ogni bacio tuo, ogni tua cura, le stille di latte che mi avevi dato, il cavo tiepido delle tue mani per i miei piedini freddi d’infante povero, le canzoni della tua bocca, la leggerezza delle tue dita sui miei riccioli fitti, e il tuo sorriso e il tuo sguardo e le tue parole e i tuoi silenzi e il tuo passo di colomba che posa i piedi rosei al suolo ma tiene le ali già socchiuse al volo, e non piega stelo tanto il suo andare è leggero, poiché tu eri sulla Terra per mia gioia, o Madre, ma tu avevi l’ali sempre trepide di Cielo, o santa, santa, santa e innamorata!
Tutte le lacrime che ti ero costato, e tutte quelle che ora cadevano dal tuo ciglio e quelle che sarebbero cadute nei tre giorni avvenire, ecco che le udivo cadere come pioggia di lamento. O lacrime di mia Mamma!
Ma chi può vedere piangere e udire piangere sua mamma e non avere poi, finché vita gli dura, lo strazio presente di quel pianto?
Io ho dovuto sperdere, strozzare l’amore umano per te, Mamma, e calpestare il tuo e il mio amore per camminare sulla via della Volontà di Dio.
Ed ero Solo. Solo! Solo!
Terra e Cielo non avevano più abitanti per Me. Ero l’Uomo carico dei peccati del mondo. Odiato perciò da Dio. Dovevo pagare per redimermi ed essere di nuovo amato.
Ero l’Uomo carico della Bontà del Cielo. Odiato perciò dagli uomini a cui la Bontà è ripugnante. Dovevo essere ucciso per punizione d’esser buono.
E anche voi, oneste gioie del lavoro compiuto per dare il pane quotidiano a Me stesso prima, per dare il pane spirituale poi agli uomini, mi siete venuti avanti a dirmi: “Perché ci lasci?”.
Nostalgia della quieta casa fatta santa da tante orazioni di giusti, fatta Tempio per aver accolto gli sponsali di Dio, fatta Cielo per aver ospitato fra le sue mura la Trinità chiusa nell’anima del Cristo di Dio!
Nostalgia delle folle umili e schiette alle quali davo luce e grazie, e dalle quali mi veniva amore!
Voci di bambini che mi chiamava no con un sorriso, voci di madri che mi chiamavano con un singhiozzo, voci di malati che mi chiamavano con un gemito, voci di peccatori che mi chiamavano con un tremito!
Tutte le udivo e mi dicevano: “Perché ci abbandoni? Non ci vuoi più accarezzare? Chi ci darà carezze, sui ricci biondi o bruni, simili alle tue”. “Non vuoi più renderci le creature estinte, guarirci le morenti? Chi avrà pietà delle madri come Tu, Figlio santo?”.
“Non vuoi più sanarci? Chi ci guarirà se Tu scompari?”. “Non vuoi più redimerci? Non ci sei che Tu che sei Redenzione. Ogni tua parola è forza che schianta una corda di peccato nel nostro buio cuore. Noi siamo più malati dei lebbrosi, perché per loro la malattia cessa con la morte, per noi si accresce. E Tu te ne vai? Chi ci capirà? Chi sarà giusto e pietoso? Chi ci rialzerà? Resta, Signore!”. “Resta! Resta! Rimani!” urlava la folla buona. “Figlio!”, urlava mia Madre. “Salvati!”, urlava la vita.
Ho dovuto spezzare queste gole che urlavano, strozzarle per non farle più urlare, per aver forza di spezzarmi il cuore, strappando uno per uno i suoi nervi per compiere la Volontà di Dio.
Ed ero solo. Cioè: ero con Satana.
La prima parte dell’orazione era stata penosa, ma ancora potevo sentire lo sguardo di Dio e sperare nell’amore degli amici.
La seconda fu più penosa perché Dio si ritirava e gli amici dormivano. Riconfermavano il sibilo di Satana e la voce della vita: “Ti sacrifichi per nulla. Gli uomini non ti ameranno per il tuo sacrificio. Gli uomini non comprendono”.
La terza… la terza fu la demenza, fu la disperazione, fu l’agonia, fu la morte.
La morte dell’anima mia. Non è risorto soltanto il corpo mio. Anche la mia anima ha dovuto risorgere. Poiché conobbe la Morte.
Non vi paia eresia. Cosa è la morte dello spirito? La separazione eterna da Dio.
Ebbene Io ero separato da Dio. Il mio spirito era morto.
È la vera ora di eternità che Io concedo ai miei prediletti. Quella che tu, piccola sposa, ti sei chiesta che fosse da quando ti hanno detto che tu hai sorte simile a Veronica Giuliani, che al termine dell’esistenza conobbe questo strazio superiore a tutti gli strazi sovrumani.
Noi conosciamo la morte dello spirito, senza averla meritata, per comprendere l’orrore della dannazione che è il tormento dei peccatori impenitenti. La conosciamo per ottenere di salvarli. Lo so. Il cuore si spezza. Lo so. La ragione vacilla. So tutto, anima diletta. L’ho provato prima di te. E’ l’orrore infernale. Siamo in balia del Demonio perché siamo separati da Dio.
Credi tu che Marta, che vinse il dragone, abbia tremato più di noi? No. La sofferenza è più grande in noi. La belva vinta da Marta era una spaventosa belva, ma sempre una belva della Terra. Noi vinciamo la belva-Lucifero. Oh, non c’è confronto! E la Belva-Lucifero viene sempre più vicino quanto più tutto, in Cielo e in Terra, da noi si allontana.
Ero già stato tentato nel deserto. Una fola di tentazione poiché allora avevo solo la debolezza del cibo materiale. Ora ero affamato di cibo spirituale e affamato di cibo morale, e non c’era pane per il mio spirito e pane per il mio cuore. Non più Dio per lo spirito mio.
Non più affetti per il cuore mio.
Ecco, allora, esile come lama di vento, penetrante come pungiglione d’ape, irritante come veleno di colubro, la voce di Lucifero.
Un flauto che suona in sordina, così piano, così piano che non desta la nostra vigile attenzione. Penetra con la seduzione della sua magica armonia, ci fa sonnecchiare, sembra un conforto, ha aspetto di conforto soprannaturale.
Oh! Ingannatore eterno, come sei sottile!
L’io non chiede che di essere aiutato. E pare che quel suono aiuti. Parole di compassione e di comprensione, dolci come carezze su una fronte febbrile, calmanti come unguento su una bruciatura, stordenti come vino generoso versato a chi è a digiuno. L’anima stanca si addormenta.
Se non fosse più che vigile col suo subcosciente, il quale è vigile soltanto in coloro che nutrono sé stessi di costante unione coll’Amore, finirebbe col cadere in un letargo che la darebbe in balìa totale di Satana, in un ipnotico sonno durante il quale Lucifero le farebbe compiere qualsiasi azione.
Ma l’anima che ha nutrito sé stessa costantemente di Amore non perde l’integrità del suo subcosciente, neppure nelle ore che uomini e Dio pare si uniscano per fare di lei un demente. E il subcosciente sveglia l’anima.
Le grida: “Agisci. Sorgi. Satana ti è alle spalle”.
La lotta tremenda ha inizio. Il veleno è già in noi. Occorre perciò lottare coi suoi effetti e contro le ondate accelerate, sempre più veementi e accelerate, del nuovo veleno della parola satanica che si versa su noi.
Il frastuono cresce. Non è più suono di flauto in sordina, non è più carezza e unguento.
È clangore di strumenti pieni, è percossa, è ferita di gladio, è fiamma che soffoca ed arde. E nella fiamma ecco la vita che passa davanti allo sguardo spirituale.
Già c’era passata col suo rassegnato aspetto di cosa sacrificata. Ora torna con veste di prepotente regina e dice: “Adorami! Io son che regno! Questi son i miei doni. I doni che ti ho dato e più belli ti darò se tu mi sarai fedele”.
E nel suono degli strumenti tornano le voci delle cose e delle persone. Non pregano più.
Comandano, imprecano, insultano, maledicono, perché le abbandoniamo. Tutto torna per tormentarci. Tutto. E l’anima sbalordita lotta sempre più debolmente.
Quando vacilla come guerriero svenato e cerca un appoggio in Cielo o in Terra per non procombere, ecco che Lucifero le dà la sua spalla.
Non c’è che lui… Si chiama al soccorso… Non risponde che lui… Si cerca uno sguardo di pietà… Non si trova che il suo…
Guai a illudersi della sua sincerità! Col resto di energia che sopravvive bisogna scostarsi da quell’appoggio, rientrare nella solitudine, chiudere gli occhi e contemplare l’orrore del nostro destino piuttosto che il suo subdolo aspetto, alzare le mani che tremano e stringerle sulle orecchie per fare ostacolo alla voce che inganna.
Cade ogni arma nel fare così. Non si è più che una povera cosa morente e sola. Non si riesce neppure a pregare con la parola, perché l’acre del fiato di Satana ci strozza le fauci.
Solo il subcosciente prega. Prega. Prega. Come il batter confuso di farfalla trafitta esso agita le sue ali nell’agonia, ed ogni colpo d’ali dice: “Credo, spero, amo”. Credo ugualmente, spero ugualmente, ti amo ugualmente!”.
Non dice: “Dio”. Non osa più pronunciare il suo Nome. Si sente troppo insozzato dalla presenza di Satana. Ma quel Nome lo tracciano le lacrime di sangue del cuore sulle ali angeliche dello spirito, che voi chiamate subcosciente mentre in realtà è il supercosciente, e ad ogni colpo d’ala quel Nome sfavilla come rubino percosso dal sole, e Dio lo vede, e le lacrime di pietà di Dio circondano di perle il rubino del vostro sangue che goccia in pianto eroico…
Oh! Anime che salite a Dio con quel Nome scritto così in rubini e perle!... Fiori del mio Paradiso!
Satana mi diceva, poiché la voce entrava nonostante ogni mio riparo: “Tu vedi. Ancora non sei morto e già sei abbandonato. Tu vedi. Hai beneficato e sei odiato. Tu vedi. Lo stesso Dio non ti soccorre. Se non ti ama Dio, di cui sei Figlio, puoi mai sperare ti siano grati gli uomini del tuo sacrificio? Sai cosa occorre per loro? La Vendetta, non l’Amore come Tu credi. Vendicati, o Cristo, di tutti questi stolti, di tutti questi crudeli. Vendicati. Colpisci con un miracolo che li fulmini. Appari quale sei: Dio. Il Dio terribile del Sinai. Il Dio terribile che mi ha fulminato e che ha cacciato Adamo dal Paradiso.
Fino ad ora hai detto parole di bontà. I tuoi rari rimproveri erano sempre troppo dolci per queste belve dalla pelle spessa più del cuoio dell’ippopotamo. Il tuo sguardo medicava le tue parole. Non sai che amare. Odia. E regnerai. L’odio tiene curve le schiene sotto la sua sferza e passa trionfante su queste schiene servili. Le schiaccia. E sono felici d’esserlo.
Non sono che dei sadici, e la tortura è l’unica carezza che apprezzano e che ricordano.
Te l’ho detto già una volta che un resto di amore, quel poco che può essermi rimasto dal tesoro d’amore che era la mia vita angelica, è in me per Te che sei buono. Ti amo, mio Signore, e ti voglio servire.
Sei il Redentore degli uomini. Perché non vuoi esserlo del tuo angelo decaduto?
Ero il tuo prediletto perché il più luminoso e Tu sei la Luce. Ora sono la Tenebra. Ma le lacrime del mio tormento hanno empito l’Inferno di liquido fuoco tanto sono numerose.
Lascia che io mi redima. Un poco soltanto. Che da demone divenga uomo. L’uomo è sempre tanto inferiore agli angeli. Ma quanto superiore a me, demonio!
Fà che io divenga uomo. Dammi una vita d’uomo tribolata, torturata, angosciosa quanto ti pare. Sarà sempre un Paradiso rispetto al mio tormento demonico. E potrò viverla in modo da espiare per di millenni e giungere infine di nuovo alla Luce; a Te.
Lascia che io ti serva in cambio di questo che ti chiedo. Nessun arma vince le mie. Né nessun esercito è più numeroso del mio. Le ricchezze di cui dispongo non hanno misura, perché ti farò re del mondo se Tu accetti il mio aiuto, e tutti i ricchi saranno gli schiavi tuoi.
Guarda: i tuoi angeli, gli angeli del Padre tuo sono assenti. Ma i miei sono pronti a vestirsi di angelici aspetti per farti corona e stupire la plebe ignorante e malvagia.
Non sai dire parole di imperio? Io te le suggerirò. Sono qui per questo.
Tuona e minaccia. Ascoltami.
Di’ parole di menzogna. Ma trionfa.
Di’ parole di maledizione. Di’ che te le suggerisce il Padre.
Vuoi che simuli la voce dell’Eterno? Lo farò. Tutto posso fare. Sono il re del mondo e dell’Inferno. Tu non sei che il Re del Cielo. Io sono più grande perciò di Te. Ma metto tutto ai tuoi piedi se Tu lo vuoi.
La Volontà del Padre tuo? Ma come puoi pensare che Egli voglia la morte del suo Figlio? Pensi che possa illudersi dell’utilità della stessa? Tu fai torto all’ Intelligenza di Dio.
Già hai redento coloro che sono suscettibili di redenzione con la tua santa Parola. Non occorre di più. Credi che chi non muta per la Parola non muta per il tuo Sacrificio. Credi che il Padre ti ha voluto provare. Ma gli basta la tua obbedienza. Non vuole di più.
Quanto lo servirai di più vivendo! Puoi percorrere il mondo. Evangelizzare. Guarire. Elevare. O sorte felice! La Terra abitata da Dio!
Ecco la vera redenzione… Rifare della Terra il Paradiso terrestre dove l’uomo torna a vivere in santa amicizia con Dio e ne ode la voce e ne vede l’aspetto. Più ancora felice della sorte dei due Primi, Perché vedrebbero Te; vero Dio, vero Uomo.
La Morte! La tua Morte! Lo strazio di tua Madre! Lo scherno del mondo!
Perché? Vuoi essere fedele a Dio?
Perché? Ti è fedele Lui? No. Dove sono i suoi angeli? Dov’è il suo sorriso? Cosa hai per anima, adesso? Un cencio lacero, afflosciato, abbandonato.
Deciditi. Dimmi: “Sì”.
Senti? Escono dal Tempio i sicari. Deciditi. Liberati. Sii degno della tua Natura.
Tu sei un sacrilego, perché permetti che mani sozze di sangue e libidine tocchino Te: il Santo dei santi. Sei il primo sacrilego del mondo. Dai la Parola di Dio in mano ai porci, in bocca ai porci.
Deciditi. Sai che morte ti attende. Io ti offro la vita, la gioia. La Madre ti riporto. Povera Madre! Non ha che Te! Guarda come agonizza… e Tu ti appresti a farla agonizzare più ancora. Che figlio sei? Che rispetto porti alla Legge? Non rispetti Dio-Te. Non rispetti la genitrice. Tua Madre… Tua Madre… Tua Madre…”.
Ho risposto… Maria, ho risposto radunando le forze, bevendo pianto e sangue che colavano dagli occhi e dai pori, ho risposto: “Non ho più madre. Non ho più vita. Non ho più divinità. Non ho più missione. Nulla ho più. Fuorché fare la Volontà del Signore mio Dio. Va’ indietro, Satana! L’ho detto la prima e la seconda volta. Lo ridico per la terza: ‘Padre, se è possibile passi da Me questo calice. Ma però non la mia; la tua Volontà sia fatta’. Va’ indietro, Satana. Io son di Dio!”.
Maria, ho risposto così… E il Cuore si è franto nello sforzo. Il sudore è divenuto non più stille ma rivoli di sangue. Non importa. Ho vinto.
Io ho vinto la Morte. Io. Non Satana. La Morte si vince accettando la morte.
Ti avevo promesso un grande regalo. Come a pochi l’ho concesso.
Te l’ho dato. Hai conosciuto l’estrema tentazione del tuo Gesù. Te l’avevo già svelata.
Ma eri ancora immatura per conoscerla in pieno. Ora lo puoi fare.
Vedi che ho ragione di dire che non sarebbe compresa e ammessa da quei piccoli cristiani che sono larve di cristiani e non cristiani formati? Va’ in pace, ché Io sono con te».
♦
Sconvolgente, a ben riflettere.
Tenere presente che questo brano – come ha detto Gesù poco sopra a Maria Valtorta - è un grande regalo… ‘come a pochi’ Egli lo aveva concesso.
♦
La prossima ‘riflessione’ sarà dedicata a:
4. CATTURA DI GESÙ AL GETSEMANI, PROCESSO, MORTE, SEPOLTURA E DISCESA AGLI INFERI.
NOTE al Capitolo 03
1 Gv 13, 1-30
2 Cfr. Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’ – Vol. X, Cap. 601, ed. CEV.
3 Gv 13,31-38 e capp. 14, 15, 16 - La Sacra Bibbia, Ed. Paoline, 1968
4 Cfr. Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’ – Vol. IX – Cap. 600/37-38, ed. CEV.
5 Ibidem, Vol. IX, Cap. 600.40/42, ed. CEV.
6 Mt 26, 30-46 - La Sacra Bibbia – CEI, 2008
(di seguito i relativi versetti)
31Allora Gesù disse loro: «Questa notte per tutti voi sarò motivo di scandalo. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge.
32Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea».
33Pietro gli disse: «Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai».
34Gli disse Gesù: «In verità io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte».
35Pietro gli rispose: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dissero tutti i discepoli.
Al Getsemani
36Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsemani, e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare».
37E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. 38E disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me».
39Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!».
40Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora?
41Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole».
42Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà».
43Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. 44Li lasciò, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole.
45Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Ecco, l'ora è vicina e il Figlio dell'uomo viene consegnato in mano ai peccatori.
7 La Sacra Bibbia – Lc 22,44
8 Cfr. Maria Valtorta: ‘Preghiere’ – L’ora del Getsemani – ed CEV.