tram bianco<\/em>, proveniente da Tricesimo e Tarcento (verr\u00e0 soppresso di l\u00ec a qualche anno). E il mercato della frutta in Piazza San Giacomo – al diavolo quelli che la chiamano col nome moderno di Piazza Matteotti – \u00e8 ancor quello d’un tempo senza tempo, con le venditrici che ridono e scherzano, e tengono in mano la bilancia a stadera, cos\u00ec antica che la usavano gi\u00e0 gli etruschi duemilacinquecento anni fa, e cos\u00ec precisa che ci vorranno le bilance elettroniche, di l\u00ec a poco, per spodestarla dopo una vita tanto lunga da sembrare eterna. La merce \u00e8 esposta direttamente nelle ceste, \u00e8 arrivata con mezzi di fortuna e ripartir\u00e0 sulle due ruote, o sulle spalle delle vecchie vestite di nero: non ci sono ancora le baracche fisse, di metallo, ordinate e tutte uguali. Ci sono i nuovi caseggiati, grandi, incongrui, eppure non del tutto privi di personalit\u00e0, come dei giovinetti cresciuto tropo in fretta, goffi e sgraziati, ma pieni di salute; e c’\u00e8 un discreto traffico automobilistico, anche se non cos\u00ec intenso da disturbare ciclisti e ragazzi in motociclo, che paiono divertirsi a disegnare spiritosi caroselli davanti al Tempio Ossario, ora Piazzale XXVI Luglio. Insomma una citt\u00e0 che ha voglia di ricominciare a vivere, che vuol godersi la sua salute, la sua esuberanza, e scommettere nel futuro, senza per\u00f2 recidere il legane col passato, n\u00e9 disprezzare le proprie radici.<\/p>\nQuella che pi\u00f9 colpisce, tuttavia, \u00e8 la parte ove la cinepresa si sofferma sulle persone. Nessuno \u00e8 mosso da una fretta esagerata, bench\u00e9 se non si vedano, come nelle citt\u00e0 del Sud, pensionati seduti tutto il giorno sulle panchine, bens\u00ec un’umanit\u00e0 affaccendata, ciascuno diretto ai suoi affari, nondimeno con una cert’aria di signorilit\u00e0. Ogni volta che l’inquadratura si sofferma su un passante, questi sorride, si ferma o rallenta, guarda dritto negli occhi e si leva il cappello con un gesto elegante, descrivendo un ampio svolazzo nell’aria, quasi come nei Tre Moschettieri<\/em>. Sulla porta delle osterie ci sono gruppi di avventori, si conoscono, sono amici; sorridono tutti, si rivolgono battute scherzose, guardano la cinepresa e ammiccano, divertiti. Certo, si dir\u00e0, sono in posa; forse li hanno scelti apposta, si son messi d’accordo prima. Pu\u00f2 darsi. Per\u00f2 quelle facce sono autentiche, sono facce sane di gente sana: gente che prende la vita con la dovuta seriet\u00e0, ma che \u00e8 anche capace di sorridere con benevolenza. Senza dubbio ciascuno avr\u00e0 i suoi problemi, problemi familiari, problemi di salute, problemi di stipendio; eppure nessuno li lascia trasparire, nessuno ne sembra sopraffatto: tutti vivono nel presente, mostrano serenit\u00e0, hanno i piedi ben piantai sulla terra. Siamo nelle vie centrali, perci\u00f2 sono quasi tutti figli della borghesia, commercianti, artigiani, qualche professionista; vestiti con decenza, ma senza lusso. Anche le ragazze coi capelli alla maschietta, come usava allora, sono serie ma non accigliate, sulle labbra un’ombra di sorriso, giacche e gonne sono di taglio modesto, ma pulite e ordinate: fanno un figurone. Il consumismo non \u00e8 ancora arrivato, o si sta appena affacciando alla finestra: c’\u00e8 la radio, ma non la televisione; e il telefono l’hanno in pochi. Ci sono i primi bar all’americana, coi tavoli di plastica e il juke-box<\/em> che diffonde le note delle ultime canzoni, accanto alle vecchie osterie piene di fumo, coi tavoli di legno massiccio e le sedie impagliate, e magari col fogol\u00e2r<\/em> circondato da pentole e paioli di rame. La gente \u00e8 contenta, la guerra \u00e8 finita e gi\u00e0 quasi dimenticata, anche se ha lasciato ferite dolorose; si pu\u00f2 lavorare in pace e metter su famiglia, si pu\u00f2 puntare a migliorare la propria condizione, purch\u00e9 si possieda un paio di braccia robuste e un po’ d’inventiva e di buona volont\u00e0. Le facce, soprattutto, sono facce autentiche, di gente vera, ciascuna rivela una sua personalit\u00e0, il timido, l’esuberante, l’ironico, il gioviale: non \u00e8 gente sconfitta, non \u00e8 gente alienata, non sono facce omologate e intercambiabili. E la faccia conta pi\u00f9 del vestito, lo sguardo conta pi\u00f9 dell’automobile, che del resto solamente pochi si possono permettere.<\/p>\nS\u00ec, lo sappiamo: si dir\u00e0 che abbiamo idealizzato quel momento storico, quella fase, quella citt\u00e0: che la distanza di tempo e di spazio ci porta a immaginare una societ\u00e0 idilliaca che non c’\u00e8 mai stata. Rispondiamo che non \u00e8 vero, che quella societ\u00e0 c’\u00e8 stata, eccome, anche se non era idilliaca, ma carica di sacrifici e di preoccupazioni, anche di natura economica, quelle dei nostri nonni e dei nostri genitori; e possiamo dirlo con tanta sicurezza per la semplice ragione che noi c’eravamo, anche se eravamo piccoli, o piccolissimi. Noi non abbiamo fatto in tempo a vedere la roggia di via Gemona, n\u00e9 il tram bianco<\/em> di Piazzale Osoppo; per\u00f2 abbiamo visto il mercato di Piazza San Giacomo, le donne con la stadera per pesare la frutta, la verdura, i fiori: e non c’erano ancora le baracche di metallo, ma solo gli ombrelloni, o semplicemente gli ombrelli, per ripararsi dal sole rovente dell’estate. Non abbiamo visto il cinema Eden<\/em>, vanto della citt\u00e0, gi\u00e0 demolito per far posto alla Upim<\/em>, per\u00f2 abbiamo visto il Puccini<\/em>, e l’Ariston<\/em>, e il Cristallo<\/em>, e tanti altri (ce n’erano una decina, per una citt\u00e0 di 80.000 anime, per\u00f2 piena zeppa di caserme e di soldati in libera uscita). Non abbiamo visto il monumento a Felice Cavallotti in cima alla collinetta dei Giardini Ricasoli<\/em>, quelli della nostra infanzia, perch\u00e9 al suo posto era gi\u00e0 stata trasportata, da Piazza Libert\u00e0, la statua di Vittorio Emanuele II, incolpevole vittima della vittoria repubblicana al referendum istituzionale. Tuttavia nei giardinetti, e sul piazzale del Castello, e nei prati di periferia, i bambini giocavamo a prendersi, o si scambiavano le figurine dei calciatori, o facevano volare gli aquiloni, e non stavamo tutto il giorno chini e ingobbiti sul minuscolo schermo del telefonino cellulare, come avviene adesso. E ricordiamo le osterie piene di gente, operai e avvocati e preti di campagna convocati in vescovado, tutti uguali davanti al tajut<\/em> di vino rosso; e il vecchio mulino non pi\u00f9 in funzione, ma non ancora demolito, sulla roggia a met\u00e0 del Viale Volontari della Libert\u00e0; e le botteghe dei borghi, via Grazzano, via San Lazzaro, via Pracchiuso; e la grande processione del Corpus Domini<\/em>, che si snodava lenta e solenne dal Palazzo dell’Arcivescovo fino al Duomo, passando sotto la porta di San Bartolomeo e la via Manin, e quindi davanti al panificio dei nonni, dove si trovava il pane pi\u00f9 buono e fragrante di tutta la citt\u00e0; e le Quarant’ore con le chiese incredibilmente addobbate di fiori e l’altare che sembrava un giardino pensile, carico di ceri e avvolto in una nube d’incenso; e la gente che nella Settimana Santa si accalcava per ascoltare i predicatori francescani e domenicani venuti apposta da qualche convento famoso, che parlavano dal pulpito con toni accorati e incendiavano l’anima dell’uditorio, e non si trovava una sedia a pagarla a peso d’oro, anzi nemmeno un posticino in piedi, tanto la chiesa era stracolma di folla, cos\u00ec attenta che non si sentiva volare una mosca. S\u00ec, noi ricordiamo tutto questo e molte altre cose; le ricordiamo con acuta nostalgia, per\u00f2 non le inventiamo: c’erano, esistevano davvero, e definivano un mondo coeso, armoniosa, una piccola societ\u00e0 in equilibrio fra progresso e tradizione, fra bisogni del gruppo e diritti del singolo; e grazie a Dio, con poche grandi fabbriche, per cui non dava esca al pessimo verbo marxista, non istigava all’invidia e all’animosit\u00e0, ma permaneva nel solco della visione cattolica, ispirata alla fede, al senso del limite e alla consuetudine del sacrificio. Soddisfatta di s\u00e9 ma senza arroganza, modesta ma senza servilismo, schietta, sincera, dove la povert\u00e0 non era una colpa, se accompagnata dalla pulizia e dai buoni costumi; e la ricchezza non era necessariamente oggetto d’invidia, se non andava unita a un nome rispettato e senza macchia. Abbiamo visto tutto ci\u00f2, e possiamo dirlo con piena cognizione di causa. A volte, quando viene l’ora dei cattivi pensieri, sospettiamo che i Padroni Universali vogliano affrettare la morte di quelli che c’erano<\/em> per far sparire appunto i testimoni di quel tempo, cos\u00ec che i giovani ignorino come si viveva, e come si potrebbe vivere ancor oggi, se si volesse, si sapesse e si capisse. Ma sono, appunto, cattivi pensieri, pensieri che vengono nei momenti di malinconia: ad esempio quando il governo chiude in casa, come delinquenti, sessanta milioni di cittadini, e il clero lascia i fedeli senza Messa e senza sacramenti, per tre mesi, Pasqua compresa; e a scuola non si parla pi\u00f9 della famiglia, la maestra non ha il diritto di chiedere a un bambino chi sono il suo pap\u00e0 e la sua mamma, eh certo, sarebbe discriminazione omofoba, ora bisogna chiedere chi sono il Genitore 1 e il Genitore 2, oppure come si chiama e cosa fa il marito del pap\u00e0, e come si chiama e cosa fa la moglie della mamma. Ora siamo tanto pi\u00f9 civili e progrediti, abbiamo istituito pure la Giornata mondiale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia. Adesso, se un ricco personaggio dello spettacolo torna in Italia dopo aver acquistato un bambino all’estero con la pratica dell’utero in affitto, \u00e8 cosa politicamente corretta rallegrarsi e sorridere, perch\u00e9 \u00e8 bello vedere una famiglia ove c’\u00e8 amore, se poi \u00e8 una famiglia formata da due maschi e se i figli sono stati acquistati pagandoli sull’unghia, beh, pazienza, questi sono dettagli, l’importante \u00e8 andare dritti al nocciolo delle cose. E il nocciolo \u00e8 che oggi siano tanto pi\u00f9 avanzati, pi\u00f9 maturi, pi\u00f9 rispettosi di quel che non fossero i nostri genitori e i nostri nonni, non pi\u00f9 tardi di cinquanta, o trenta, o anche solo dieci anni fa.<\/p>\nOra, la domanda \u00e8 sempre la stessa: quando e come e perch\u00e9 abbiamo sbagliato strada? Chi \u00e8 stato esattamene a perderla, e come mai il buon esempio delle passate generazioni non \u00e8 stato sufficiente a metterci in guardia? I meccanismi economici e finanziari, il sorgere dei supermercati e dei centri commerciali che hanno spodestato le botteghe di quartiere, le banche d’affari che hanno sostituito le casse di risparmio, tutto ci\u00f2 \u00e8 sufficiente a spiegare la deriva, l’alienazione da noi stessi? O c’\u00e8 una grossa componente psicologica, culturale, morale? Perch\u00e9 abbiamo smesso di credere nel domani, desiderare figli, metter su famiglia, moltiplicare le piccole imprese? E quando abbiamo cominciato a odiare noi stessi? Quando e perch\u00e9 abbiamo pensato che i clandestini invasori hanno ogni diritto, e gli onesti cittadini non hanno che sempre nuovi doveri? Quando abbiamo cominciato a restare in piedi davanti al Santissimo, e a inginocchiarci in omaggio a un delinquente straniero, ammazzato durante l’arresto, trasformandolo in un simbolo di libert\u00e0 e di giustizia? E come mai i nostri preti non ci parlano pi\u00f9 del bene e del male, del peccato e della grazia, e soprattutto della vita eterna, ma sempre e solo dei migranti, del clima e dell’ambiente? Quando scioperare per andar dietro ai gretini \u00e8 diventato pi\u00f9 intelligente che andare a scuola per studiare seriamente e prendersi un diploma e onorare l’impegno preso coi genitori? E quando i professori hanno capito che \u00e8 cosa buona e giusta condurre le scolaresche in viaggio d’istruzione ad Auschwitz, o meglio ancora a Lampedusa, per far vedere i luoghi brutti della storia, invece che a visitare i musei e i monumenti di Roma, di Vienna, di Londra e di Parigi, per dare loro un’idea dell’arte e della civilt\u00e0 alle quali apparteniamo, e delle quali siamo figli, sia pure confusi e smemorati? Quando e come \u00e8 entrato in noi il virus del tutto e subito<\/em>, del comprare le cose a rate, del voler fare il passo pi\u00f9 lungo della gamba, del promettere senza mantenere, dell’apparire senza essere? Cosa ci \u00e8 successo? Perch\u00e9 a scuola, nello sport, nelle professioni, nella chiesa, nella politica, nell’impresa, siamo diventati cos\u00ec diversi, cos\u00ec incerti, cos\u00ec velleitari, rispetto ai nostri genitori e ai nostri nonni? Da quando abbiamo appreso che l’importante \u00e8 arrivare, con qualsiasi mezzo? Che non vale la pena di spargere sudore, se non si porta a casa un risultato? Che la virt\u00f9 non \u00e8 premio a se stessa? Chi ci ha corrotti, infiacchiti, effeminati? Perch\u00e9 i nostri vecchi sognavano di sposarsi e avere dei bambini, noi sogniamo di fare la bella vita, magari attraverso un provino del Grande Fratello<\/em> o di Amici<\/em>? Abbiamo sbagliato tutto, dobbiamo rientrare in noi. Ma in che modo? Come facevano i nostri genitori e i nostri nonni: chiedendo consiglio a Dio…<\/p>\n","protected":false},"excerpt":{"rendered":"C’\u00e8 su Youtube un video estremamente interessante, oltre che commovente, intitolato: Quattro passi per Udine. 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