
La Parabola del RE AGNELLO
«[…] Gli animali pensarono a eleggersi un re. Ed essendo astuti pensarono di eleggersi uno che non desse timore di essere forte o feroce. Scartarono dunque il leone e tutti i felini. Dissero di non volere le rostrate aquile né nessun altro uccello di rapina. Diffidarono del cavallo che con rapidità poteva raggiungerli e vedere le loro azioni; e ancor più diffidarono dell’asino di cui sapevano la pazienza ma anche le subite furie e i potenti zoccoli. Inorridirono di avere per re la scimmia perché troppo intelligente e vendicativa. Con la scusa che il serpente si era prestato a Satana per sedurre l’uomo, dissero di non volerlo a re nonostante i suoi vaghi colori e l’eleganza delle sue mosse. In realtà non lo vollero perché ne conoscevano il silenzioso incedere, il forte potere dei suoi muscoli, il tremendo agire del suo veleno. Darsi a re un toro o altro animale munito di aguzze corna? Ohibò! “Anche il diavolo le ha”, dissero. Ma pensavano: “Se ci ribelliamo, un giorno esso ci stermina con le sue corna”.
Scansa e scansa, videro un agnelletto grasso e bianco saltabeccare allegro su un prato verde, dando musate alla tonda mammella materna. Non aveva corna, ma aveva occhi miti come un cielo d’aprile. Era mansueto e semplice. Di tutto era contento. E dell’acqua di un piccolo rio dove beveva tuffando il musetto rosato; e dei fioretti dai diversi sapori che appagavano l’occhio e il palato; e dell’erba folta in cui era bello giacere quando era sazio; e delle nuvole che parevano altri agnellini che scorazzassero su quei prati azzurri, lassù, e lo invitassero a giocare correndo sul prato come esse nel cielo; e, soprattutto, delle carezze della mamma, che ancora gli permetteva qualche tepida succhiata leccandogli intanto il vello bianco con la sua rosea lingua; e dell’ovile sicuro e riparato dai venti, della lettiera ben soffice e fragrante, nella quale era dolce dormire presso la madre. “È di facile accontentatura. È senza armi né veleno. È ingenuo. Facciamolo re”. E tale lo fecero. E se ne gloriavano perché era bello e buono, ammirato dai popoli vicini, amato dai sudditi per la sua paziente mansuetudine.
Passò del tempo e l’agnello divenne montone e disse: “Ora è tempo che io realmente governi. Ora ho il pieno possesso della cognizione della mia missione. Il volere di Dio, che ha permesso che io fossi eletto re, mi ha poi formato a questa missione, dandomi capacità di regnare. È dunque giusto che io la eserciti in modo perfetto, anche per non trascurare i doni di Dio”.
E vedendo sudditi che facevano cose contrarie alla onestà dei costumi, o alla carità, alla dolcezza, alla lealtà, alla morigeratezza, all’ubbidienza, al rispetto, alla prudenza, e così via, alzò la voce per ammonire. I sudditi si risero del suo belato saggio e dolce, che non spauriva come il ruggito dei felini, né come lo strido degli avvoltoi quando si calano rapidi sulla preda, né come il sibilo del serpente e neppure come l’abbaiata del cane che incute timore.
L’agnello divenuto montone non si limitò più a belare. Ma andò dai colpevoli per ricondurli al loro dovere. Ma il serpente gli sguisciò fra le zampe. L’aquila si elevò a volo lasciandolo in asso. I felini con una zampata lo scansarono minacciando: “Vedi che cosa c’è nella zampa felpata che per ora ti scansa soltanto? Artigli”. I cavalli, e tutti i corridori in genere, si dettero a giostrare al galoppo intorno a lui, deridendolo. E i forti elefanti o altri pachidermi, con un urto del muso, lo gettarono qua e là, mentre le scimmie, dall’alto degli alberi, lo bersagliarono di proiettili.
L’agnello divenuto montone si inquietò, infine, e disse: “Non volevo usare né le mie corna né la mia forza. Perché io pure ho una forza in questo collo, e sarà presa a modello per abbattere ostacoli di guerra. Non volevo usarla perché preferisco usare amore e persuasione. Ma posto che non vi piegate con queste armi, ecco che userò la forza, perché se voi mancate al vostro dovere verso me e Dio, io non voglio mancare al mio verso Dio e voi. Qui sono stato messo per guidarvi alla Giustizia e al Bene, da voi e da Dio. E qui voglio che Giustizia e Bene, ossia Ordine, regnino”. E punì con le corna, leggermente perché era buono, un testardo botolo che continuava a molestare i vicini, e poi, col collo fortissimo, sfondò la porta della tana dove un ingordo ed egoista porco aveva accumulato cibarie a scapito degli altri, e pure abbatté il cespuglio di liane eletto da due lussuriosi scimmiotti per i loro illeciti amori.
“Questo re si è fatto troppo forte. Vuole realmente regnare lui. Vuole proprio che noi si viva da saggi. Ciò non ci va a genio. Bisogna detronizzarlo”, decisero.
Ma un astuto scimmiotto consigliò: “Non facciamolo altro che con l’apparenza di un motivo giusto. Altrimenti faremo brutta figura presso i popoli e saremo invisi a Dio. Spiamo dunque ogni azione dell’agnello divenuto montone per poterlo accusare con una parvenza di giustizia”.
“Ci penso io”, disse il serpente. “Ed io pure”, disse la scimmia. Uno strisciando fra le erbe, l’altra stando sull’alto delle piante, non persero mai di vista l’agnello divenuto montone, e ogni sera, quando lui si ritirava per riposare dalle fatiche della missione, e per meditare sulle misure da adottare e le parole da usare per domare la ribellione e vincere i peccati dei sudditi, questi, meno qualche raro onesto e fedele, si riunivano per ascoltare il rapporto delle due spie e dei due traditori. Perché tali erano anche.
Il serpente diceva al suo re: “Ti seguo perché ti amo e se vedessi che sei assalito voglio potere difenderti”. La scimmia diceva al suo re: “Come ti ammiro! Ti voglio aiutare. Guarda, da qua io vedo che oltre quel prato si sta peccando. Corri!”; e poi diceva ai compagni: “Anche oggi ha preso parte al banchetto di alcuni peccatori. Ha finto di andare là per convertirli, ma poi, in realtà, è stato complice dei loro bagordi”. E il serpente riferiva: “È andato fino fuori dal suo popolo, avvicinando farfalle, mosconi e viscidi lumaconi. È un infedele. Commercia con stranieri immondi”.
Così parlavano alle spalle dell’innocente, credendo che costui ignorasse. Ma lo spirito del Signore, che lo aveva formato alla sua missione, lo illuminava anche sulle congiure dei sudditi. Avrebbe potuto fuggire sdegnato, maledicendoli. Ma l’agnello era dolce ed umile di cuore. Amava. Aveva il torto di amare. E aveva quello anche più grande di perseverare, amando e perdonando, nella sua missione, a costo della morte, per compiere la volontà di Dio. Oh! che torti questi presso gli uomini! Imperdonabili! E tanto lo erano che a lui procurarono condanna.
“Sia ucciso per essere liberati dalla sua oppressione”. E il serpente si incaricò di ucciderlo, perché è sempre il serpente il traditore… […]»
L’Evangelo come mi è stato rivelato, 246.7/9
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