
Gli ALBERI CHE DESIDERAVANO un RE
Ancora la sinagoga di Nazaret, in giorno di sabato, però.
Gesù
ha letto l’apologo contro Abimelec e termina con le parole: «“esca da
lui un fuoco e divori i cedri del Libano”». Poi rende al sinagogo il
rotolo.
«Il resto non lo leggi? Bene sarebbe per far comprendere l’apologo», dice il sinagogo.
«Non occorre. Il tempo di Abimelec è molto lontano. Io applico al momento di ora l’apologo antico.
Udite,
genti di Nazaret. Voi già sapete, per istruzione del vostro sinagogo,
il quale fu istruito a suo tempo da un rabbi, e questo da un altro
ancora, e così via da secoli, e sempre con lo stesso metodo e con le
stesse conclusioni, le applicazioni dell’apologo contro Abimelec. Da Me
sentirete un’altra applicazione. E vi prego, del resto, di saper usare
della vostra intelligenza e non essere come corde appoggiate sulle
carrucole del pozzo, che finché non sono logore vanno dalla carrucola
all’acqua, dall’acqua alla carrucola senza mai poter cambiare. L’uomo
non è un canapo obbligato, né un arnese meccanico. L’uomo è dotato di un
cervello intelligente e lo deve saper usare di suo, a seconda dei
bisogni e delle circostanze. Perché, se la lettera della parola è
eterna, le circostanze cambiano. Miseri quei maestri che non sanno saper
volere la fatica e la soddisfazione di estrarre volta per volta
l’insegnamento nuovo, ossia lo spirito che le parole antiche e sapienti
contengono sempre. Saranno simili a echi che non possono che ripetere,
magari dieci e dieci volte, una sola parola, senza mettervene pur una di
loro.
Gli alberi, ossia l’umanità raffigurata nel bosco dove sono
radunate tutte le specie di piante, di arbusti e di erbe, sentono il
bisogno di essere condotti da uno che si aggravi di tutte le glorie ma
anche, ed è peso ben maggiore, di tutti i gravami del-l’autorità,
dell’essere il responsabile della felicità o infelicità dei sudditi, il
responsabile presso i sudditi, presso i popoli vicini e, ciò che è
tremendo, presso Dio. Perché le corone o le preminenze sociali, quali
che siano, sono date dagli uomini, è vero, ma permesse da Dio, senza la
quale condiscendenza nessuna forza umana può imporsi. Cosa che spiega
gli impensabili e improvvisi mutamenti di dinastie che parevano eterne, e
di potenze che parevano intoccabili, e che, quando passarono la misura
nell’essere punizioni ai popoli o prova dei popoli, furono rovesciate
dagli stessi, per permesso di Dio, divenendo nulla, polvere, talora
fango di bassa cloaca.
Ho detto: i popoli sentono il bisogno di
eleggersi uno che si aggravi di tutte le responsabilità verso i sudditi,
verso le nazioni vicine e verso Dio, ciò che è più tremendo di tutto.
Perché, se il giudizio della storia è tremendo, e invano cercano
interessi di popoli di mutarlo, perché eventi e popoli futuri lo
renderanno alla sua prima tremenda verità, ancor peggio è il giudizio di
Dio, il quale non subisce pressioni da chicchessia, e non è soggetto a
mutamenti di umore e di giudizio, come troppo spesso gli uomini lo sono,
e tanto meno è soggetto a errori di giudizio. Occorrerebbe perciò che
gli eletti ad essere capi di popoli e creatori di storia agissero con la
giustizia eroica propria dei santi, per non essere infamati nei secoli
futuri e puniti da Dio nei secoli dei secoli.
Ma torniamo
all’apologo di Abimelec. Gli alberi dunque vollero eleggersi un re e
andarono dall’ulivo. Ma questo, albero sacro e consacrato ad usi
soprannaturali, per l’olio che arde davanti al Signore ed è parte
preponderante nelle decime e nei sacrifizi, che presta il suo liquido a
formare il balsamo santo per l’unzione dell’altare, dei sacerdoti e dei
re, e scende con proprietà direi quasi taumaturgiche nei corpi o sui
corpi malati, rispose: “Come posso io mancare alla mia vocazione santa e
soprannaturale per avvilirmi in cose della terra?”.
Oh! la dolce
risposta dell’ulivo! Perché mai non è imparata e praticata da tutti
coloro che Dio elegge a santa missione, almeno da quelli, dico almeno?
Perché in verità andrebbe detta da ogni uomo in risposta alle
suggestioni del demonio, dato che ogni uomo è re e figlio di Dio, dotato
di un’anima che tale lo fa, regale, figlialmente divino, chiamato a
destino soprannaturale. Ha un’anima che è un altare e una casa. L’altare
di Dio, la casa dove il Padre dei Cieli scende a ricevere amore e
riverenza dal figlio e suddito. Ogni uomo ha un’anima, ed ogni anima
essendo altare fa dell’uomo che la contiene un sacerdote, custode
dell’altare, ed è detto nel Levitico: “Il sacerdote non si contamini”.
L’uomo dunque avrebbe il dovere di rispondere alla tentazione del
demonio, del mondo e della carne: “Posso io cessare di essere spirituale
per occuparmi di cose materiali e peccaminose?”.
Gli alberi
andarono allora dal fico, invitandolo a regnare su loro. Ma il fico
rispose: “Come posso io rinunziare alla mia dolcezza e ai miei
soavissimi frutti per divenire vostro re?”.
Molti si volgono a colui
che è dolce per averlo re. Non tanto per ammirazione della sua dolcezza
quanto perché sperano che per essere molto dolce finisca a divenire un
re da burla, dal quale si possa ottenere ogni consenso e sul quale
permettersi ogni licenza. Ma la dolcezza non è debolezza. È bontà.
Giusta. Intelligente. Ferma. Non scambiate mai la dolcezza con la
debolezza. La prima è virtù, la seconda è difetto. E appunto essendo
virtù comunica a chi la possiede una dirittura di coscienza che gli
permette di resistere alle sollecitazioni e seduzioni umane, intese a
piegarlo verso i loro interessi, che non sono gli interessi di Dio,
rimanendo fedele al suo destino, ad ogni costo. Il dolce di spirito non
ribatterà mai con asprezza le rampogne altrui, non respingerà mai con
durezza chi lo reclama. Ma però, con perdoni e sorriso, dirà sempre:
“Fratello, lasciami alla mia dolce sorte. Io sono qui per consolarti ed
aiutarti, ma non posso divenire re, quale tu pensi, perché di un’unica
regalità mi curo e preoccupo, per l’anima mia e per l’anima tua: di
quella spirituale”.
Gli alberi andarono dalla vite a chiederle di
essere il loro re. Ma la vite rispose: “Come posso io rinunciare ad
essere allegrezza e forza per venire a regnare su voi?”.
L’essere
re, e per le responsabilità e per i rimorsi, perché più raro di diamante
nero è il re che non pecca e non si crea rimorsi, porta sempre a
cupezze di spirito. La potenza seduce finché splende come un faro da
lontano, ma quando la si è raggiunta si vede che non è che un lume di
lucciola e non di stella. E anche: la potenza non è che una forza legata
dai mille canapi dei mille interessi che si agitano intorno ad un re.
Interessi di cortigiani, interessi di alleati, interessi personali e di
parentele. Quanti re giurano a se stessi, mentre l’olio li consacra: “Io
sarò imparziale”, e poi non sanno esserlo? Come un albero potente che
non si ribella al primo abbraccio dell’edera molle e sottile dicendo: “È
tanto esile che non mi può nuocere”, e anzi si compiace di esserne
inghirlandato e di esserne il protettore che la sorregge nel suo salire,
così sovente, potrei dire sempre, il re cede al primo abbraccio di un
interesse cortigiano, alleato, personale o di parentela che a lui si
volge, e si compiace di esserne il munifico protettore. “È tanto poca
cosa!”, dice anche se la coscienza gli grida: “Bada!”. E pensa non possa
nuocergli né nel potere, né nel buon nome.
Anche l’albero crede
così. Ma viene il giorno che, ramo dopo ramo, crescendo in robustezza e
in lunghezza, crescendo nella voracità di suggere linfe del suolo e
salire alla conquista di luce e di sole, l’edera abbraccia tutto
l’albero potente, lo soverchia, lo soffoca, l’uccide. Ed era tanto
esile! E lui era tanto forte! Anche per i re è così. Un primo
compromesso con la propria missione, una prima alzata di spalle alla
voce della coscienza, perché le lodi sono dolci, perché l’aria di
protettore ricercato piace, e viene il momento che il re non regna, ma
regnano gli interessi altrui e lo imprigionano, lo imbavagliano fino a
soffocarlo e lo sopprimono se, divenuti più forti di lui, vedono che
egli non si affretta a morire. Anche l’uomo comune, sempre un re nello
spirito, si perde se accetta regalità minori per superbia, per avidità. E
perde la sua serenità spirituale che gli viene dall’unione con Dio.
Perché il demonio, il mondo e la carne possono dare un illusorio potere e
godere, ma a costo della allegrezza spirituale che viene dall’unione
con Dio.
Allegrezza e forza dei poveri di spirito, ben meritate che
l’uomo sappia dire: “E come posso accettare di divenire re nella parte
inferiore se, venendo ad alleanze con voi, io perdo forza e allegrezza
interna e il Cielo e la sua regalità vera?”. E possono anche dire,
questi beati poveri di spirito che hanno solo la mira di possedere il
Regno dei Cieli e sprezzano ogni altra ricchezza che quel regno non sia,
e possono anche dire: “E come possiamo venire meno alla nostra
missione, che è quella di maturare succhi fortificatori e di allegrezza
per questa umanità sorella, che vive nell’arido deserto della animalità e
che ha bisogno di essere dissetata per non morire, per essere nutrita
di succhi vitali come un bimbo privo di nutrice? Noi siamo le nutrici
dell’umanità che ha perduto il seno di Dio, che erra sterile e malata,
che giungerebbe alla disperata morte, ai neri scetticismi, se non
trovasse noi che, con l’allegra operosità dei liberi da ogni laccio
terreno, li facessimo persuasi che vi è una Vita, una Gioia, una
Libertà, una Pace. Non possiamo rinunciare a questa carità per un
interesse meschino”.
Gli alberi andarono allora dallo spino. Questo non li respinse. Ma impose patti severi: “Se mi volete per re venite sotto
di me. Ma se non lo volete fare, dopo avermi eletto, io farò di ogni
spino tormento acceso e arderò tutti voi, anche i cedri del Libano”.
Ecco
le regalità che pure il mondo accetta per vere! La prepotenza e la
ferocia sono, per l’umanità corrotta, scambiate per vera regalità,
mentre la mitezza e la bontà vengono prese per stoltezza e bassi
sentimenti. L’uomo non si sottomette al Bene ma si sottomette al Male.
Ne è sedotto. E conseguentemente ne è arso.
Questo l’apologo di Abimelec. […]»
L’Evangelo come mi è stato rivelato, 246.1/6
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