r1225 - VALTORTAVOX

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(AF) Vangelo Gv 1,1-18 + S.C. ♦
(AF) Vangelo Gv 1,1-18 + D.G. ♦
(AF) Vangelo Lc 2,1-14 + S.C. ♦
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25 dicembre ♦ Santo NATALE

MESSA del Giorno
Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 1,1-18.

In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l'hanno accolta.
Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto.
A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue,
né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli rende testimonianza e grida: «Ecco l'uomo di cui io dissi:
Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia.
Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.

MESSA della NOTTE (Vigilia)
Dal Vangelo secondo Luca • Lc 2, 1-14

In  quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il  censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando  Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire,  ciascuno nella propria città.
Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla  città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme:  egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva  farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta.
Mentre si  trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede  alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in  una mangiatoia, perché per loro non c'era posto nell'alloggio.
C'erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all'aperto,  vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo  del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di  luce. Essi furono presi da grande timore, ma l'angelo disse loro: «Non  temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo:  oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo  Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce,  adagiato in una mangiatoia».
E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».

Maria Valtorta: «L'Evangelo come mi è stato rivelato»

01_029; La nascita di Gesù; Efficacia salvifica della divina Maternità di Maria
 6 giugno 1944.
 29.1Vedo  ancora l’interno di questo povero rifugio petroso dove hanno trovato  asilo, accumunati nella sorte a degli animali, Maria e Giuseppe.
   Il fuocherello sonnecchia insieme al suo guardiano. Maria solleva  piano il capo dal suo giaciglio e guarda. Vede che Giuseppe ha il capo  reclinato sul petto come se pensasse, e pensa che la stanchezza soverchi  il suo buon volere di rimanere desto. Sorride d’un buon sorriso e,  facendo meno rumore di quanto ne può fare una farfalla che si posi su  una rosa, si mette seduta e da seduta in ginocchio. Prega con un sorriso  beato sul volto. Prega a braccia aperte, non proprio a croce, ma quasi,  a palme volte in alto e in avanti, né mai pare stanca di quella posa  penosa. Poi si prostra col volto contro il fieno in una ancora più  intensa preghiera. Lunga preghiera.
  Giuseppe si scuote. Vede  quasi morto il fuoco e quasi tenebrosa la stalla. Getta una manata di  eriche fini fini e la fiamma risfavilla; vi unisce rametti più grossi, e  poi ancora più grossi, perché il freddo deve esser pungente. Il freddo  della notte invernale e serena che penetra da tutte le parti di quella  rovina. Il povero Giuseppe, presso come è alla porta — chiamiamo pure  così il pertugio a cui fa da tenda il suo mantello — deve essere gelato.  Accosta le mani alla fiamma, si sfila i sandali e accosta i piedi. Si  scalda. Quando il fuoco è ben desto e la sua luce è sicura, egli si  volge. Non vede nulla, neppure più quel biancore del velo di Maria, che  prima metteva una linea chiara sul fieno scuro. Si leva in piedi e  lentamente si avvicina al giaciglio.
  «Non dormi, Maria?», chiede.
  Lo chiede tre volte, finché Ella si riscuote e risponde: «Prego».
  «Non abbisogni di nulla?».
  «No, Giuseppe».
  «Cerca di dormire un poco. Di riposare almeno».
  «Cercherò. Ma pregare non mi stanca».
  «Addio, Maria».
  «Addio, Giuseppe».
   Maria riprende la sua posa. Giuseppe, per non cedere più al sonno,  si pone in ginocchio presso il fuoco e prega. Prega con le mani strette  sul viso. Le leva ogni tanto per alimentare il fuoco e poi torna alla  sua fervente preghiera. Meno il rumore delle legna che crepitano e  quello del ciuchino, che di tanto in tanto batte uno zoccolo sul suolo,  non si ode niente.                                                                                                         
 29.2Un  poco di luna si insinua da una crepa del soffitto e pare una lama di  incorporeo argento che vada cercando Maria. Si allunga, man mano che la  luna si fa più alta in cielo, e la raggiunge, finalmente. Eccola sul  capo della orante. Glielo innimba di candore.
  Maria leva il capo  come per una chiamata celeste e si drizza in ginocchio di nuovo. Oh!  come è bello qui! Ella alza il capo, che pare splendere nella luce  bianca della luna, e un sorriso non umano la trasfigura. Che vede? Che  ode? Che prova? Solo Lei potrebbe dire quanto vide, sentì e provò  nell’ora fulgida della sua Maternità. Io vedo solo che intorno a Lei la  luce cresce, cresce, cresce. Pare scenda dal Cielo, pare emani dalle  povere cose che le stanno intorno, pare soprattutto che emani da Lei.
   La sua veste, azzurra cupa, pare ora di un mite celeste di miosotis,  e le mani e il viso sembrano farsene azzurrini come quelli di uno messo  sotto il fuoco di un immenso zaffiro pallido. Questo colore, che mi  ricorda, benché più tenue, quello che vedo nelle visioni del santo  Paradiso e anche quello che vidi nella visione della venuta dei Magi, si  diffonde sempre più sulle cose, le veste, le purifica, le fa splendide.
   La luce si sprigiona sempre più dal corpo di Maria, assorbe quella  della luna, pare che Ella attiri in sé quella che le può venire dal  Cielo. Ormai è Lei la Depositaria della Luce. Quella che deve dare  questa Luce al mondo. E questa beatifica, incontenibile, immisurabile,  eterna, divina Luce che sta per esser data, si annuncia con un’alba, una  diana, un coro di atomi di luce che crescono, crescono come una marea,  che salgono, salgono come un incenso, che scendono come una fiumana, che  si stendono come un velo…
  La volta, piena di crepe, di  ragnateli, di macerie sporgenti che stanno in bilico per un miracolo di  statica, nera, fumosa, repellente, pare la volta di una sala regale.  Ogni pietrone è un blocco di argento, ogni crepa un guizzo di opale,  ogni ragnatela un preziosissimo baldacchino contesto di argento e  diamanti. Un grosso ramarro, in letargo fra due macigni, pare un monile  di smeraldo dimenticato là da una regina; e un grappolo di pipistrelli  in letargo, una preziosa lumiera d’onice. Il fieno che pende dalla più  alta mangiatoia non è più erba, sono fili e fili di argento puro che  tremolano nell’aria con la grazia di una chioma disciolta.
  La  sottoposta mangiatoia è, nel suo legno scuro, un blocco d’argento  brunito. Le pareti sono coperte di un broccato in cui il candore della  seta scompare sotto il ricamo perlaceo del rilievo, e il suolo… che è  ora il suolo? È un cristallo acceso da una luce bianca. Le sporgenze  paiono rose di luce gettate per omaggio al suolo; e le buche, coppe  preziose da cui debbano salire aromi e profumi.                                                                                                     
 29.3E  la luce cresce sempre più. È insostenibile all’occhio. In essa  scompare, come assorbita da un velario d’incandescenza, la Vergine… e ne  emerge la Madre.
  Sì. Quando la luce torna ad essere sostenibile  al mio vedere, io vedo Maria col Figlio neonato sulle braccia. Un  piccolo Bambino, roseo e grassottello, che annaspa e zampetta con le  manine grosse quanto un boccio di rosa e coi piedini che starebbero  nell’incavo di un cuore di rosa; che vagisce con una vocina tremula,  proprio di agnellino appena nato, aprendo la boccuccia che sembra una  fragolina di bosco e mostrando la linguetta tremolante contro il roseo  palato; che muove la testolina tanto bionda da parere quasi nuda di  capelli, una tonda testolina che la Mamma sostiene nella curva di una  sua mano, mentre guarda il suo Bambino e lo adora piangendo e ridendo  insieme e si curva a baciarlo, non sulla testa innocente, ma su, centro  del petto, là dove sotto è il cuoricino che batte, batte per noi… là  dove un giorno sarà la Ferita. Gliela medica in anticipo, quella ferita,  la sua Mamma, col suo bacio immacolato.
  Il bue, svegliato dal  chiarore, si alza con gran rumore di zoccoli e muggisce, e l’asinello  volge il capo e raglia. È la luce che li scuote, ma io amo pensare che  essi hanno voluto salutare il loro Creatore, per loro e per tutti gli  animali.                                                                                                         
 29.4Anche  Giuseppe, che, quasi rapito, pregava così intensamente da esser isolato  da quanto lo circondava, si scuote, e dalle dita strette al viso vede  filtrare la luce strana. Leva le mani dal viso, alza il capo, si volge.  Il bue ritto in piedi nasconde Maria. Ma Ella chiama: «Giuseppe, vieni».
   Giuseppe accorre. E quando vede si arresta, fulminato di riverenza, e  sta per cadere in ginocchio là dove è. Ma Maria insiste: «Vieni,  Giuseppe» e punta la mano sinistra sul fieno e, tenendo con la destra  stretto al cuore l’Infante, si alza e si dirige a Giuseppe, che cammina  impacciato per il contrasto fra il desiderio di andare e il timore di  essere irriverente.
  Ai piedi della lettiera i due sposi si incontrano e si guardano con un pianto beato.
   «Vieni, ché offriamo al Padre Gesù», dice Maria. E, mentre Giuseppe  si inginocchia, Ella, ritta in piedi fra due tronchi che sostengono la  volta, alza la sua Creatura fra le braccia e dice: «Eccomi. Per Lui, o  Dio, ti dico questa parola. Eccomi a fare la tua volontà. E con Lui io,  Maria, e Giuseppe, mio sposo. Ecco i tuoi servi, Signore. Sia fatta  sempre da noi, in ogni ora e in ogni evento, la tua volontà, per tua  gloria e per amor tuo».
  Poi Maria si curva e dice: «Prendi, Giuseppe» e offre l’Infante.
  «Io? A me? Oh, no! Non sono degno!». Giuseppe è sbigottito addirittura, annientato all’idea di dover toccare Iddio.
   Ma Maria insiste sorridendo: «Tu ne sei ben degno. Nessuno più di te  lo è, e per questo l’Altissimo ti ha scelto. Prendi, Giuseppe, e  tienilo mentre io cerco i panni».
  Giuseppe, rosso come una  porpora, stende le braccia e prende il batuffolino di carne che strilla  di freddo e, quando lo ha fra le braccia, non persiste nell’intenzione  di tenerlo scosto da sé per rispetto e se lo stringe al cuore, dicendo  con un grande scoppio di pianto: «Oh! Signore! Dio mio!», e si curva a  baciare i piedini e li sente freddi, e allora si siede al suolo e se lo  raccoglie in grembo e con la sua veste marrone e con le mani cerca  coprirlo, scaldarlo, difenderlo dalla sizza della notte. Vorrebbe andare  verso il fuoco, ma là c’è quella corrente d’aria che entra dalla porta.  Meglio stare qui. Meglio, anzi, andare fra i due animali, che fanno da  scudo all’aria e che mandano calore. E va fra il bue e l’asino e sta con  le spalle alla porta, curvo sul Neonato per fare del suo petto una  nicchia, le cui pareti laterali sono una testa bigia dalle lunghe  orecchie e un grosso muso bianco dal naso fumante e dall’umido occhio  buono.                                                                                                         
 29.5Maria  ha aperto il cofano e ne ha tratto lini e fasce. È andata al fuoco e le  ha scaldate. Eccola che va a Giuseppe e avvolge il Bambino nella tela  intiepidita e poi nel suo velo per riparargli la testolina. «Dove lo  mettiamo ora?», chiede.
  Giuseppe guarda intorno, pensa…  «Aspetta», dice. «Spingiamo più in qua i due animali e il loro fieno e  tiriamo giù quel fieno là in alto e lo mettiamo qui dentro. Il legno  della sponda lo riparerà dall’aria, il fieno gli farà guanciale e il bue  col suo fiato lo scalderà un pochino. Meglio il bue. È più paziente e  quieto». E si dà da fare, mentre Maria ninna il suo Bambino,  stringendoselo al cuore e tenendo la sua guancia sulla testolina per  dargli calore.
  Giuseppe ravviva il fuoco senza risparmio per fare  una bella fiamma e scalda il fieno e, man mano che lo asciuga, perché  non raffreddi se lo mette in seno. Poi, quando ne ha raccolto tanto da  farne un materassino all’Infante, va alla mangiatoia e lo dispone che  sia come una cunella. «È pronto», dice. «Ora ci vorrebbe una coperta,  perché il fieno punge, e per ricoprirlo…».
  «Prendi il mio mantello», dice Maria.
  «Avrai freddo».
   «Oh! non fa nulla! La coperta è troppo ruvida. Il mantello è morbido  e caldo. Io non ho freddo per nulla. Ma che Egli non soffra più!».
   Giuseppe prende l’ampio mantello di morbida lana celeste cupo e lo  accomoda in doppio sul fieno, con un lembo che pende fuor dalla greppia.  Il primo letto del Salvatore è pronto.
  E la Madre, col suo dolce  passo ondeggiante, ve lo porta e ve lo depone, e lo ricopre con il  lembo del manto e lo conduce anche intorno al capino nudo, che affonda  nel fieno, appena riparato da questo dal sottile velo di Maria. Rimane  scoperto solo il visetto grosso come un pugno d’uomo, e i Due, curvi  sulla greppia, lo guardano beati dormire il suo primo sonno, perché il  calduccio delle fasce e del fieno ha calmato il pianto e conciliato il  sonno al dolce Gesù.   
                                                                                                       
29.6Dice Maria:
   «Ti avevo promesso che Egli sarebbe venuto a portarti la sua pace.  La ricordi la pace che era in te nei giorni di Natale? Quando mi vedevi  col mio Bambino? Allora era il tuo tempo di pace. Ora è il tuo tempo di  pena. Ma tu lo sai, ormai. È nella pena che si conquista la pace e ogni  grazia per noi e per il prossimo. Gesù-Uomo tornò Gesù-Dio dopo la  tremenda pena della Passione. Tornò Pace. Pace nel Cielo da cui era  venuto e dal quale ora effonde la sua pace a coloro che nel mondo lo  amano. Ma nelle ore di Passione, Lui, Pace del mondo, fu privato di  questa pace. Non avrebbe sofferto se l’avesse avuta. E doveva soffrire.  Completamente soffrire.
29.7Io,  Maria, ho redento la donna con la mia Maternità divina. Ma non fu che  l’inizio della redenzione della donna, questo. Negandomi ad ogni umano  sponsale col voto di verginità, avevo respinto ogni soddisfazione  concupiscente meritando grazia da Dio. Ma non bastava ancora. Perché il  peccato d’Eva era albero di quattro rami: superbia, avarizia, golosità,  lussuria. E tutti e quattro andavano stroncati prima di sterilire  l’albero dalle radici.
 29.8Umiliandomi sino al profondo, ho vinto la superbia.
   Mi sono umiliata davanti a tutti. Non parlo della mia umiltà verso  Dio. Questa è dovuta all’Altissimo da ogni creatura. L’ebbe il suo  Verbo. La dovevo avere io, donna. Ma hai mai riflettuto quali  umiliazioni dovetti subire, e senza difendermi in nessuna maniera, da  parte degli uomini? Anche Giuseppe, che era giusto, mi aveva accusata  nel suo cuore. Gli altri, che giusti non erano, avevano peccato di  mormorazione verso il mio stato, e il rumore delle loro parole era  venuto come onda amara a frangersi contro la mia umanità.
  E furon  le prime delle infinite umiliazioni che la mia vita di Madre di Gesù e  del genere umano mi procurarono. Umiliazioni di povertà, umiliazioni di  profuga, umiliazioni per rimproveri di parenti e amici che, non sapendo  la verità, giudicavano debole il mio modo d’esser madre verso il mio  Gesù fatto giovane uomo, umiliazioni nei tre anni del suo ministero,  umiliazioni crudeli nell’ora del Calvario, umiliazioni fin nel dover  riconoscere che non avevo di che comperare luogo e aromi per la  sepoltura del Figlio mio.
29.9Ho vinto l’avarizia dei Progenitori rinunciando in anticipo di tempo alla mia Creatura.
   Una madre non rinuncia mai che forzatamente alla sua creatura. La  chiedano al suo cuore la patria, l’amore di una sposa, o Dio stesso,  ella recalcitra alla separazione. È naturale. Il figlio ci cresce in  seno e non è mai reciso completamente il legame che tiene la sua persona  congiunta alla nostra. Se anche è spezzato il canale del vitale  ombelico, resta sempre un nervo che parte dal cuore della madre, un  nervo spirituale e più vivo e sensibile di un nervo fisico, il quale si  innesta nel cuore del figlio. E si sente stirare sino allo spasimo se  l’amore di Dio o di una creatura, o le esigenze della patria,  allontanano il figlio dalla madre. E si spezza lacerando il cuore se la  morte strappa un figlio ad una madre.
  Ed io ho rinunciato, dal  momento che l’ho avuto, al Figlio mio. A Dio l’ho dato. A voi l’ho dato.  Io, del Frutto del mio seno, me ne sono spogliata per riparare al furto  di Eva del frutto di Dio.
29.10Ho vinto la golosità, e del sapere e del godere, accettando di sapere unicamente ciò che Dio voleva sapessi,  senza chiedere a me o a Lui più di quanto mi fosse detto. Ho creduto  senza investigare. Ho vinto la golosità del godere, perché mi sono  negata ogni sapore di senso. La mia carne l’ho messa sotto ai piedi. La  carne, strumento di Satana, l’ho confinata con Satana sotto al mio  calcagno per farmene scalino per avvicinarmi al Cielo. Il Cielo! La mia  mèta. Là dove era Dio. L’unica mia fame. Fame che non è gola ma  necessità benedetta da Dio, il quale vuole che appetiamo di Lui.
29.11Ho vinto la lussuria,  la quale è la golosità portata all’ingordigia. Perché ogni vizio non  frenato conduce ad un vizio più grande. E la golosità di Eva, già  riprovevole, la condusse alla lussuria. Non le bastò più il darsi  soddisfazione da sola. Volle spingere il suo delitto ad una raffinata  intensità, e conobbe e si fece maestra di lussuria al compagno. Io ho  capovolto i termini e, in luogo di scendere, sono sempre salita. In  luogo di far scendere, ho sempre attirato in alto, e del mio compagno,  un onesto, ho fatto un angelo.
  Ora che possedevo Iddio e con Lui  le sue ricchezze infinite, mi sono affrettata a spogliarmene dicendo:  “Ecco, sia fatta per Lui e da Lui la tua volontà”. Casto è colui che ha  ritenutezza non solo di carne, ma anche di affetti e di pensieri. Io  dovevo esser la Casta per annullare l’Impudica della carne, del cuore e  della mente. E non uscii dal mio ritegno dicendo neppure del mio Figlio,  unicamente mio sulla Terra come era unicamente di Dio in Cielo:
 29.12Eppure  non bastava ancora per ottenere alla donna la pace perduta da Eva.  Quella ve la ottenni ai piedi della Croce. Nel veder morire Quello che  tu hai visto nascere. Nel sentirmi strappare le viscere al grido della  mia Creatura che moriva, sono rimasta vuota di ogni femminismo: non più  carne ma angelo. Maria, la Vergine sposata allo Spirito, morì in quel  momento. Rimase la Madre della Grazia, quella che vi ha dal suo tormento  generata la Grazia e ve l’ha data. La femmina che avevo riconsacrata  donna la notte del Natale, ai piedi della Croce acquistò i mezzi di  divenire creatura dei Cieli.
  Questo ho fatto io per voi,  negandomi ogni soddisfazione anche santa. Di voi, ridotte da Eva femmine  non superiori alle compagne degli animali, ho fatto, sol che lo  vogliate, le sante di Dio. Sono ascesa per voi. Come feci con Giuseppe[67],  vi ho portate più in alto. La roccia del Calvario è il mio monte degli  Ulivi. Da lì presi il balzo per portare ai Cieli l’anima risantificata  della donna insieme alla mia carne, glorificata per aver portato il  Verbo di Dio e annullato in me anche l’ultima traccia di Eva, l’ultima  radice di quell’albero dai quattro venefici rami e dalla radice confitta  nel senso, che aveva trascinato alla caduta l’umanità e che fino alla  fine dei secoli e all’ultima donna vi morderà le viscere. Da là, dove  ora splendo nel raggio dell’Amore, io vi chiamo e vi indico la Medicina  per vincere voi stesse: la Grazia del mio Signore e il Sangue del Figlio  mio.
29.13E  tu, mia voce, riposa l’anima tua nella luce di quest’alba di Gesù, per  aver forza per le future crocifissioni che non ti saranno risparmiate,  perché qui ti vogliamo e qui si viene attraverso il dolore, perché qui  ti vogliamo e tanto più alto si viene quanto più si è portato pena per  ottenere Grazia al mondo.
  Va’ in pace. Io sono con te».

[67] Come feci con Giuseppe, invece di Come Giuseppe, è correzione di MV su una copia dattiloscritta.

01_030; L'annuncio ai pastori che diventano i primi adoratori del Verbo fatto Uomo
7 giugno 1944. Vigilia del Corpus Domini.
 […].
 30.1Più  tardi vedo una vasta estensione di campagna. La luna è allo zenit e  veleggia placida in un cielo gremito di stelle. Sembrano tante borchie  di diamante infisse in un enorme baldacchino di velluto celeste cupo, e  la luna vi ride in mezzo col suo faccione bianchissimo, da cui scendono  fiumi di luce lattea che fa bianca la terra. Gli alberi spogli sembrano  più alti e neri sul suolo così imbiancato, mentre i muretti, che qua e  là sorgono a confine, sembrano di latte, e una casina lontana pare un  blocco di marmo di Carrara.
  Alla mia destra vedo un luogo cintato  da una siepe di pruni su due lati e da un muro basso e scabro da altri  due. Questo muro sorregge il tetto di una specie di tettoia larga e  bassa, che nella parte interna del recinto è costruita parte in muratura  e parte in legname, quasi che nell’estate le parti in legno debbano  esser tolte e la tettoia mutarsi in porticato. Da questo chiuso esce, di  tanto in tanto, un belare intermittente e breve. Devono essere  pecorelle che sognano o che forse credono sia prossimo il giorno per il  chiarore che dà la luna. Un chiarore persino eccessivo, tanto è intenso,  e che cresce, quasi che il pianeta si avvicini alla terra o sfavilli  per un misterioso incendio.
30.2Un  pastore si affaccia sulla porta e, portandosi un braccio sulla fronte  per fare riparo agli occhi, guarda in alto. Pare impossibile che ci si  debba riparare dal chiarore della luna. Ma questo è così vivo che  abbacina, specie chi esce da un chiuso dove è tenebra. Tutto è calmo. Ma  quella luce stupisce.
  Il pastore chiama i compagni. Si  affacciano sulla porta tutti. Un mucchio d’uomini irsuti, di età  diverse. Ve ne sono di appena adolescenti e di già canuti. Commentano il  fatto strano e i più giovani hanno paura. Specie uno, un fanciullo sui  dodici anni, che si mette a piangere attirandosi le baie dei più vecchi.
   «Di che temi, stolto?», gli dice il più vecchio. «Non vedi che aria  quieta? Non hai mai visto splendere la luna? Sei sempre stato sotto le  vesti della mamma come un pulcino sotto la chioccia, vero? Ma ne vedrai  delle cose! Una volta io mi ero spinto verso i monti del Libano, oltre  ancora. In alto. Ero giovane e non mi pesava l’andare. Ero anche ricco,  allora… Una notte vidi una luce tale che pensai che fosse per tornare  Elia sul suo carro di fuoco. Il cielo era tutto un incendio. Un vecchio —  allora il vecchio era lui — mi disse: “Grande avventura sta per venire  nel mondo”. E per noi fu sventura, perché vennero i soldati di Roma. Oh!  ne vedrai, se campi!…».
30.3Ma  il pastorello non lo ascolta più. Pare non abbia neppur più paura,  perché lascia la soglia e sguscia da dietro le spalle di un nerboruto  mandriano, dietro il quale si era rifugiato, ed esce nello stazzo erboso  che è davanti alla tettoia. Guarda in alto e cammina come un sonnambulo  o come uno ipnotizzato da qualcosa che lo attira totalmente. Ad un  certo punto grida: «Oh!» e resta come pietrificato, a braccia un poco  aperte.
  Gli altri si guardano stupefatti.
  «Ma cosa ha quello stolto?», dice uno.
  «Domani lo rimando a sua madre. Non voglio pazzi a custodia delle pecore», dice un altro.
   E il vecchio che ha parlato poco prima dice: «Andiamo a vedere prima  di giudicare. Chiamate anche gli altri che dormono e prendete i  bastoni. Che non sia una bestia cattiva o dei malandrini…».
  Entrano, chiamando altri pastori, ed escono con torce e randelli. Raggiungono il fanciullo.
   «Là, là», egli mormora sorridendo. «Al di sopra dell’albero,  guardate quella luce che viene. Pare cammini sul raggio della luna. Ecco  che si avvicina. Come è bella!».
  «Io vedo solo un più vivo chiarore».
  «Io pure».
  «Anche io», dicono gli altri.
  «No. Io vedo come un corpo», dice uno in cui riconosco il pastore che ha dato il latte a Maria.
  «È un… è un angelo!», grida il bambino. «Eccolo che scende e si avvicina… Giù! In ginocchio davanti all’angelo di Dio!».
   Un «oh!» lungo e venerabondo si alza dal gruppo dei pastori, che  cadono con il volto verso il suolo, e tanto più paiono schiacciati  dall’apparizione fulgente quanto più sono anziani. I giovanetti sono in  ginocchio, ma guardano l’angelo, che sempre più si avvicina e si ferma  sospeso, ventilando le grandi ali, candore di perla nel candore di luna  che lo circonda, al disopra del muro del recinto.
  «Non temete.  Non porto sventura. Io vi reco l’annuncio di una grande allegrezza per  il popolo d’Israele e per tutto il popolo della Terra». La voce angelica  è un’armonia d’arpa su cui cantino gole d’usignoli.
  «Oggi, nella  città di Davide, è nato il Salvatore». L’angelo, nel dire questo, apre  più grandi le ali e le muove come per soprassalto di gioia, e una  pioggia di faville d’oro e di pietre preziose pare ne sfugga. Un vero  arcobaleno che fa un arco di trionfo sul povero stabbio.
  «…il  Salvatore che è Cristo». L’angelo sfavilla di aumentata luce. Le sue due  ali, ora ferme e tese a punta verso il cielo come due vele immobili  sullo zaffiro del mare, sembrano due fiamme che salgano ardendo.
   «…Cristo, il Signore!». L’angelo raccoglie le sue due fulgide ali e  se ne veste come di una sopraveste di diamante sull’abito di perla, si  curva come adorasse, con le braccia conserte sul cuore e il volto che  scompare, curvato come è sul petto, fra l’ombra dei sommi dell’ali  piegate. Non si vede che una oblunga forma luminosa, immobile per lo  spazio di un “Gloria”.
  Ma ecco che si muove. Riapre le ali, alza  il volto in cui la luce si fonde al paradisiaco sorriso, e dice: «Lo  riconoscerete da questi segni: in una povera stalla, dietro Betlemme,  troverete un bambino nelle fasce in una mangiatoia di animali, ché per  il Messia non vi fu un tetto nella città di David». L’angelo si fa serio  nel dire questo, mesto anzi.
 30.4Ma  dai Cieli vengono tanti — oh! quanti! — tanti angeli simili a lui, una  scala d’angeli che scende esultando e annullando la luna col loro  splendore paradisiaco, e si riuniscono intorno all’angelo nunziante in  un agitar di ali, in uno sprigionare di profumi, in un arpeggiare di  note, in cui tutte le voci più belle del creato trovano un ricordo, ma  portato alla perfezione di suono. Se la pittura è lo sforzo della  materia per divenire luce, qui la melodia è lo sforzo della musica per  fare balenare agli uomini la bellezza di Dio, e udire questa melodia è  conoscere il Paradiso, dove tutto è armonia di amore, che da Dio si  sprigiona per far lieti i beati e che da questi va a Dio per dirgli: «Ti  amiamo!».
  Il “Gloria” angelico si sparge in onde sempre più  vaste per la campagna quieta, e la luce con esso. E gli uccelli uniscono  un canto che è saluto a questa luce precoce, e le pecore i loro belati  per questo anticipato sole. Ma io, come già nella grotta per il bue e  l’asino, amo credere che siano gli animali che salutano il loro  Creatore, venuto in mezzo ad essi per amarli come Uomo oltre che come  Dio.
  Il canto si attenua e la luce pure, mentre gli angeli risalgono ai Cieli…
  30.5… I pastori tornano in loro.
  «Hai udito?».
  «Andiamo a vedere?».
  «E le bestie?».
  «Oh! non succederà loro nulla! Andiamo per ubbidire alla parola di Dio!…».
  «Ma dove andiamo?».
   «Ha detto che è nato oggi? e che non ha trovato alloggio in  Betlemme?». È il pastore che ha dato il latte, questo che parla ora.  «Venite, io so. Ho visto la Donna e mi ha fatto pena. Ho insegnato un  luogo per Lei, perché pensavo non trovassero alloggio, e all’uomo ho  dato del latte per Lei. È tanto giovane e bella, e deve esser buona come  l’angelo che ci ha parlato. Venite, venite. Andiamo a prendere latte,  formaggi, agnelli e pelli conciate. Devono esser poveri molto e… chissà  che freddo ha Colui che non oso nominare! E pensare che io ho parlato  alla Madre come ad una povera sposa!…».
  Vanno nella tettoia e ne  escono poco dopo chi con delle fiaschette di latte, chi con delle  reticelle di sparto intrecciato con dentro tondi formaggini, chi con  delle ceste in cui vi è un agnellino belante, e chi con delle pelli di  pecora conciate.
  «Io porto una pecora. Ha figliato da un mese. Il  latte lo ha buono. Potrà loro servire se la Donna non ha latte. Mi  pareva una bambina, e così bianca!… Un viso di gelsomino sotto la luna»,  dice il pastore del latte. E li guida.
30.6Vanno  alla luce della luna e delle torce dopo aver chiuso tettoia e recinto.  Vanno per sentieri campestri, fra siepi di pruni spogliati dall’inverno.
   Girano dietro Betlemme. Raggiungono la stalla venendo non dalla  parte da cui venne Maria, ma dall’opposta, di modo che non passano  davanti alle stalle più belle, ma trovano questa per prima. Si accostano  al pertugio.
  «Entra!».
  «Io non oso».
  «Entra tu».
  «No».
  «Guarda, almeno».
   «Tu, Levi, che hai visto l’angelo per primo, segno che sei buono più  di noi, guarda». Veramente prima gli hanno dato del pazzo… ma ora fa  loro comodo che egli osi ciò che loro non osano.
  Il fanciullo tituba, ma poi si decide. Si accosta al pertugio, scosta un pochino il mantello, guarda… e resta estatico.
  «Che vedi?», lo interrogano ansiosi a bassa voce.
   «Vedo una donna giovane e bella e un uomo curvi su una mangiatoia e  sento…, sento piangere un piccolo bambino, e la donna gli parla con una  voce… oh! che voce!».
  «Che dice?».
  «Dice: “Gesù,  piccolino! Gesù, amore della tua Mamma! Non piangere, piccolo figlio!”.  Dice: “Oh! potessi dirti: ‘Prendi il latte, piccolino!’. Ma non ce l’ho  ancora!”. Dice: “Hai tanto freddo, amore mio! E ti punge il fieno. Che  dolore per la tua Mamma sentirti piangere così e non poterti dare  conforto!”. Dice: “Dormi, anima mia! ché mi si spacca il cuore a  sentirti piangere e a vederti lacrimare!”, e lo bacia e gli scalda certo  i piedini con le sue mani, perché sta curva con le braccia giù nella  mangiatoia».
  «Chiama! Fàtti sentire!».
  «Io no. Tu, che ci hai condotti e la conosci[68]».
  Il pastore apre la bocca e poi si limita a fare un mugolio.
30.7Giuseppe si volge e viene alla porta. «Chi siete?».
  «Pastori. Vi portiamo cibo e lana. Veniamo ad adorare il Salvatore».
  «Entrate».
  Entrano e la stalla si fa più chiara per il lume delle torce. I vecchi spingono i bambini davanti a loro.
   Maria si volge e sorride. «Venite», dice. «Venite!» e li invita con  la mano e col sorriso, e prende quello che ha visto l’angelo e lo attira  a sé, fin contro la greppia. E il fanciullo guarda beato.
  Gli  altri, invitati anche da Giuseppe, si avanzano coi loro doni e li  mettono tutti, con brevi, commosse parole, ai piedi di Maria. E poi  guardano il Bambinello, che piange piano, e sorridono commossi e beati.
   E uno, più ardito, dice: «Prendi, o Madre. È soffice e pulita.  L’avevo preparata per il bambino che mi sta per nascere. Ma te la dono.  Metti il Figlio tuo fra questa lana, sarà morbida e calda». E offre la  pelle di una pecora, una bellissima pelle ricca di lana candida e lunga.
  Maria solleva Gesù e ve lo avvolge. E lo mostra ai pastori, che in ginocchio sul fieno del suolo lo guardano estatici.
   Si fanno più arditi e uno propone: «Bisognerebbe dargli un sorso di  latte, meglio acqua e miele. Ma non abbiamo miele. Si dà ai piccolini.  Ho sette figli e so…».
  «Qui c’è il latte. Prendi, o Donna».
  «Ma è freddo. Caldo ci vuole. Dove è Elia? Egli ha la pecora».
  Elia deve essere quello del latte. Ma non c’è. Si è fermato fuori e guarda dalla fessura, e nel buio della notte si perde.
  «Chi vi ha guidati?».
  «Un angelo ci ha detto di venire, e Elia ci ha guidati qui. Ma dove è ora?».
  La pecora lo denuncia con un belato.
  «Vieni avanti, ti si vuole».
  Entra con la sua pecora, vergognoso di esser il più notato.
  «Tu sei?», dice Giuseppe che lo riconosce, e Maria gli sorride dicendo: «Sei buono».
   Mungono la pecora e, con la punta di un lino intriso nel latte caldo  e spumoso, Maria bagna le labbra del Bambinello, che succhia quel  dolciore cremoso. Sorridono tutti e più ancora quando, con l’angolino di  tela ancora fra le labbruzze, Gesù si addormenta nel caldo della lana.
30.8«Ma  qui non potete rimanere. Fa freddo e vi è umido. E poi… vi è troppo  odore di bestie. Non fa bene… e… non sta bene per il Salvatore».
  «Lo so», dice Maria con un grande sospiro. «Ma non c’è posto per noi a Betlemme».
  «Fa’ cuore, o Donna. Noi ti cercheremo una casa».
  «Lo dirò alla padrona mia», dice quello del latte, Elia.
   «È buona. Vi accoglierà, dovesse cedervi la sua stanza. Appena è  giorno glielo dico. Ha la casa piena di gente. Ma vi darà un posto».
  «Per il mio Bambino, almeno. Io e Giuseppe stiamo anche per terra. Ma per il Piccino…».
   «Non sospirare, Donna. Ci penso io. E lo diremo a molti ciò che ci è  stato detto. Non mancherete di nulla. Per ora prendete ciò che la  nostra povertà vi può dare. Siamo pastori…».
  «Siamo poveri noi pure. E non vi possiamo compensare», dice Giuseppe.
   «Oh! non vogliamo! Anche lo poteste, non vorremmo! Il Signore ce ne  ha già compensato. La pace l’ha promessa a tutti. Gli angeli dicevano  così: “Pace agli uomini di buona volontà”. Ma a noi ce l’ha già data,  perché l’angelo ha detto che questo Bambino è il Salvatore, che è  Cristo, il Signore. Siamo poveri e ignoranti, ma sappiamo che i profeti  dicono che il Salvatore sarà il Principe della Pace. E a noi ci ha detto  di andare ad adorarlo. Perciò ci ha dato la sua pace. Gloria a Dio nei  Cieli altissimi e gloria a questo suo Cristo, e benedetta sia tu, Donna,  che lo hai generato! Santa sei, perché hai meritato di portarlo!  Comandaci come Regina, ché saremo contenti di servirti. Che possiamo  fare per te?».
  «Amare il Figlio mio ed avere sempre in cuore i pensieri di ora».
  «Ma per te? Non desideri nulla? Non hai parenti ai quali far sapere che Egli è nato?».
  «Sì, li avrei. Ma non sono qui vicino. Sono a Ebron…».
  «Ci vado io», dice Elia. «Chi sono?».
  «Zaccaria il sacerdote ed Elisabetta mia cugina».
   «Zaccaria? Oh! lo conosco bene. Nell’estate vado su quei monti,  perché i pascoli vi sono ricchi e belli, e sono amico del suo pastore.  Quando ti so sistemata vado da Zaccaria».
  «Grazie, Elia».
  «Niente grazie. Grande onore per me, povero pastore, andare a parlare al sacerdote e dirgli: “È nato il Salvatore”».
  «No. Gli dirai: “Ha detto Maria di Nazareth, tua cugina, che Gesù è nato, e di venire a Betlemme”».
  «Così dirò».
  «Dio te ne compensi.
30.9Mi ricorderò di te, di voi tutti…».
  «Dirai al tuo Bambino di noi?».
  «Lo dirò».
  «Io sono Elia».
  «E io Levi».
  «Ed io Samuele».
  «E io Giona».
  «Ed io Isacco».
  «Ed io Tobia».
  «Ed io Gionata».
  «Ed io Daniele».
  «E Simeone io».
  «E Giovanni mi chiamo io».
  «Io Giuseppe e mio fratello Beniamino, siamo gemelli».
  «Ricorderò i vostri nomi».
  «Dobbiamo andare… Ma torneremo… E ti porteremo altri ad adorare!…».
  «Come tornare all’ovile lasciando questo Bambino?».
  «Gloria a Dio che ce lo ha mostrato!».
  «Facci baciare la sua veste», dice Levi con un sorriso d’angelo.
   Maria alza piano Gesù e, seduta sul fieno, offre i piedini, avvolti  nel lino, da baciare. E i pastori si chinano fino al suolo e baciano  quei piedini minuscoli, velati di tela. Chi ha la barba se la forbisce  prima e quasi tutti piangono e, quando devono andare, escono a ritroso,  lasciando il cuore indietro…
  La visione mi cessa così, con Maria  seduta sulla paglia col Bambino in grembo e Giuseppe che, appoggiato  alla greppia con un gomito, guarda e adora.

 30.10Dice Gesù:
   «Oggi parlo Io. Sei molto stanca, ma abbi pazienza ancora un poco. È  la vigilia del Corpus Domini. Potrei parlarti del­l’Eucarestia e dei  santi che si fecero apostoli del suo culto, così come ti ho parlato[69]  dei santi che furono apostoli del Sacro Cuore. Ma voglio parlarti di  un’altra cosa e di una categoria di adoratori del Corpo mio che sono i  precursori del culto per Esso. E sono i pastori. I primi adoratori del  mio Corpo di Verbo divenuto Uomo.
  Una volta ti dissi, e ciò è  detto anche dalla mia Chiesa, che i santi Innocenti sono i protomartiri  del Cristo. Ora ti dico che i pastori sono i primi adoratori del Corpo  di Dio. E in loro vi sono tutti i requisiti richiesti per essere  adoratori del Corpo mio, anime eucaristiche.
  Fede sicura: essi credono prontamente e ciecamente all’angelo.
  Generosità: essi dànno tutta la loro ricchezza al loro Signore.
  Umiltà: si accostano a dei più poveri, umanamente, di loro con modestia di atti che non avvilisce, e si professano servi loro.
  Desiderio: quanto non possono dare da loro, si industriano a procurare con apostolato e fatica.
  Prontezza di ubbidienza: Maria desidera sia avvertito Zaccaria, e Elia va subito. Non rimanda.
  Amore, infine: essi non sanno staccarsi di là, e tu dici: “lasciano là il loro cuore”. Dici bene.
  Ma non bisognerebbe fare così anche col mio Sacramento?
30.11E  un’altra cosa, tutta per te, questa: osserva a chi si svela per primo  l’angelo e chi merita di sentire le effusioni di Maria. Levi: il  fanciullo.
  A chi ha l’anima di fanciullo Dio si mostra e mostra i  suoi misteri e permette che oda le parole divine e di Maria. E chi ha  anima di fanciullo ha anche il santo ardimento di Levi e dice: “Fàmmi  baciare la veste di Gesù”. Lo dice a Maria. Perché è sempre Maria quella  che vi dà Gesù. È Lei la Portatrice dell’Eucarestia. È Lei la Pisside  viva.
  Chi va a Maria trova Me. Chi mi chiede a Lei, da Lei mi  riceve. Il sorriso di mia Madre, quando una creatura le dice: “Dàmmi il  tuo Gesù, ché lo ami”, fa trascolorare i Cieli in un più vivo splendore  di letizia, tanto è felice.
  Dille dunque: “Fàmmi baciare la veste  di Gesù. Fàmmi baciare le sue piaghe”. E osa di più ancora. Di’ :  “Fàmmi posare il capo sul Cuore del tuo Gesù, perché ne sia beata”.
  Vieni. E riposa. Come Gesù nella cuna, fra Gesù e Maria».

[68] Tu, che ci hai condotti e la conosci, invece di Voi, che ci avete condotti e la conoscete, è correzione di MV su una copia dattiloscritta.
[69] ti ho parlato, il 2 giugno 1944, ne “I quaderni del 1944”.

♦ Estratto da «L'Evangelo come mi è stato rivelato» ♦ Copyright © Fondazione Erede di Maria Valtorta • ETS

Eventuali violazioni ai DIRITTI d'AUTORE, se DEBITAMENTE SEGNALATE a ezio1944@gmail.com - VERRANNO IMMEDIATAMENTE RIMOSSE
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